La scoperta dell'aria calda

Fiera di Milano, Rho. Un esempio di architettura avulsa dalla realtà.

Negli anni ‘90, come è uso della dinamica della crescita, ci si accorge che la Fiera di Milano (nell'antica sede tra Porta Sempione e il Portello) non basta più, padiglione un tempo periferico ma ormai inglobato dall’urbanizzazione, difficile di logistica e non abbastanza capiente.

Si costruisce pertanto la seconda Fiera di Milano (ovviamente più grande), che ormai è talmente vasta che finisce in realtà per essere a Rho, in un continuum urbano che caratterizza tutta la pianura Padana.

Inaugurato nel 2005, si tratta di un polo fieristico molto grande e moderno, attraversato da un lungo percorso che taglia in due i padiglioni, per una lunghezza di 1,5 Km.

Ci arrivo in una tarda mattinata di inizio maggio, la giornata è splendida e la temperatura gradevolissima, di quelle che si conciliano con pantaloni lunghi e camicia di cotone. Si sta a proprio agio nell’ombra e senza soffrire in pieno sole.

Emergo dal sottosuolo del tunnel della metropolitana, e mi dirigo verso gli evidenti accessi segnalati con cartellonistica molto intuitiva. Mi attende un convegno presso la porta sud, dovrò attraversare a piedi circa metà del percorso pedonale.

Ed è qui che vedo la volta. Sopra il patio di accesso, vedo un’enorme copertura in vetro e acciaio, lunga 1.500 metri, di larghezza variabile tra 32 e 41 metri. In pratica è un tetto che sovrasta tutto il percorso pedonale che taglia in due parti la fiera. Architettonicamente è splendida.

La copertura se ne sta a circa 15 metri di altezza, sorretta da piloni di acciaio, e ai lati c’è in effetti un sacco di “luce” (in senso ingegneristico) per far passare il vento.

Tuttavia il sole, come detto, lassù picchia ancora con discrezione ma allegramente. Se all’aria aperta la temperatura è ottimale, sotto quella maledetta copertura c’è un forno. E sono solo i primi di maggio. Io penso che a luglio, in quelle giornate in cui si boccheggia, sia fisiologicamente impossibile transitare sotto quella volta.

Sfortunatamente (in realtà fortunatamente) quell’ambiente non si può gestire con l’aria condizionata perché, come detto, ai lati ci sono ampissime aperture, che però a quanto pare non sono sufficienti a scongiurare l’effetto serra, evidentissimo.

Il famoso architetto Massimiliano Fuksas forse non ha pensato a questo.

Il risultato è grottesco. Per fare un’architettura ad effetto e per la funzionalità di risparmiarci qualche goccia d’acqua se piove è stata creata, immagino a prezzi altissimi vista la ricercatezza della costruzione, una struttura completamente disfunzionale, che preclude la sua fruizione in condizioni di comfort per almeno 5 mesi l’anno, quando c'è il sole.

E pensare che erano lì pronti 1,5 km di percorso da dedicare a due filari lunghissimi di profumati tigli, eleganti frassini, solitari noci, flessuosi carpini, chiassosi maggiociondoli, discreti olmi. E chissà cos’altro ancora potevano metterci.

Essi avrebbero perso le foglie d’inverno per far passare i deboli raggi del sole, intiepidendoci, per poi rimetterle a primavera e regalarci fresca ombra, col canto degli uccelli e il delicato fremito delle foglie ad ogni refolo di vento. Sarebbero costati incommensurabilmente meno e avrebbero reso il polo fieristico più fresco e meno artefatto. Per fare la bella architettura, come è giusto che sia, bastava scatenarsi sui padiglioni, come ora. Sulla passerella le foglie avrebbero sporcato il viale, certo, ma raccoglierle non sarebbe costato più della pulizia della attuale volta di vetro e acciaio, percorsa da orrende macchie di polvere e detriti ancor più difficili da pulire.

Sarebbero bastati centinaia di alberi, oppure accettare che un percorso all’aperto prendesse la pioggia. Invece c’è una copertura tanto bella quanto sciocca, ennesimo elemento architettonico che vuole suggellare l’abiura della tecnosfera alla natura, ma che finisce per essere la caricatura di se stessa, elemento che impallidisce di fronte ad un umile albero, intrinsecamente bello e funzionale al tempo stesso.

Il futuro dell’architettura dovrà fare i conti con questo, concretizzando una fattiva funzionalità in quel che propone. Sta già accadendo in alcuni casi, ma troppo spesso ancora no.

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Federico Balzan