GUIDA GALATTICA PER GLI ESCURSIONISTI-CICLISTI

(come sfondo un viaggio in bicicletta in Montenegro)

 Balzan Federico nr 01

Denis ed io in vetta al Bobotov Kuk nella foto scattata da uno dei due tedeschi. I nostri veri volti sono protetti per evitare vostre eventuali ritorsioni.

 

Alcune estati fa, agosto 2014. Un venerdì sera di un weekend da bollino nero sulle autostrade. A quell’epoca ero emigrato e stavo nella Venezia di terraferma (la popolare Mestre).

Denis mi raggiunse dopo il lavoro da Belluno e, per festeggiare l’inizio delle vacanze, ritenemmo opportuno andare subito ad ubriacarci in una delle putride osterie in cui ero già uno di famiglia, anziché fare una partenza intelligente alzandoci prestissimo l’indomani. All’epoca entrambi eravamo scapoli. Ci svegliammo sabato mattina con calma, facendo una colazione da bohémienne. Poi, ingenuamente, caricammo le bici in auto ed entrammo in A4 direzione ex-Jugo, confidando nella vecchia utilitaria Škoda di Denis, già colma di cartacce, sudiciume e polvere. Ben presto fummo fermi in coda sotto il sole, un classico nazionale. Il piano B fu uscire a Latisana e trascorrere il resto della giornata alle foci del fiume Stella, dove due settimane prima avevo avvistato forse una lontra (ma m’era rimasto il dubbio che fosse una nutria) e volevo almeno trovare una delle sue famose cacche che odorano di miele e gamberetti o qualche pesta. Invece, finimmo per trascorrere la giornata insultandoci a vicenda per non aver consultato il bollettino del traffico.

Con una mossa da leoni ripartimmo alle 19 del giorno stesso, a traffico sbollito, per fare un’unica tirata fino a Spalato. Lì piantammo la tenda poco fuori dal casello alle 2 di notte, in mezzo a una stradina bianca perché la landa circostante era tutta buche e rovi. Io ero terrorizzato che un trattore mattiniero ci potesse investire di lì a poche ore, Denis si limitò a dirmi di non rompere i coglioni e si addormentò. Spiantammo la tenda quattro ore dopo, per proseguire verso la Bosnia. Io m’ero sognato il trattore tutto il tempo.

Con questo Denis, non si capisce perché siamo amici: in montagna lui cammina in salita il doppio di me e arrampica almeno tre gradi più di me. Quindi in teoria io sono un peso. Parla poco e la gente gli sta sulle palle, di solito. Forse nemmeno io sono così conciliante, in effetti. Ogni tanto litighiamo e non è un gran problema quando viaggiamo in bici, ognuno va per la sua strada, poniamo, per un pomeriggio. Il problema è quando siamo su una via in montagna, e mi viene il dubbio che lui lì davanti – lui è sempre davanti – dia uno strattone o molli la corda, e io lì a precipitare rimbalzando dentro un grigio canalone dolomitico, a perdere i miei migliori anni sfracellandomi laggiù. La polizia non sospetterebbe nulla, gli incidenti in montagna càpitano spesso.

***

Insomma arrivammo alla frontiera. Denis si era dimenticato di fare mi pare la carta verde, e la fece lì sul momento con gli sbirri croati, pagando ovviamente molto di più. Io da stronzo non mi offrii di fare a metà, ma dissi all’incirca: «la macchina è tua, arrangiati». Giungemmo infine a Trebinje, in Bosnia(1). Parcheggiamo in uno spiazzo polveroso la Škoda di Denis, talmente malmessa che non sfigurava con il parco auto locale. Scaricammo le biciclette ed iniziammo a metterle a punto per il viaggio che ci aspettava.

Durante la preparazione del viaggio, avevo suggerito a Denis di dotarsi di portapacchi robusto da montare sugli occhielli filettati del telaio della bici, visto che l’anno prima eravamo stati in Ungheria e lui s’era portato tutto sulle spalle in uno zaino da trekking, e gli era venuto il mal di schiena. Niente da fare: quasi a farmi dispetto, prese un portapacchi da quattro soldi da montare a sbalzo sul tubo sella. Per risparmiare, disse. Questo accrocco malfatto si ruppe – lo giuro sull’onore del reportage narrativo neorealista del Blogger Contest – dopo duecento metri, quando la bici scese con un tonfo il gradino di un marciapiede. Lo sfanculai. Accroccammo ulteriormente l’accrocco con delle funi elastiche, io mi caricai parte della sua roba sulla mia bici e lo sfanculai di nuovo, e partimmo decisi verso la nostra destinazione: il Montenegro montuoso dell’entroterra, ché sulla costa ci avevano detto sono già passati i russi palazzinari ed hanno deturpato tutto.

Come detto, io sono una mezza sega e arrancavo sotto il sole in salita. Il caldo era opprimente e ci fermammo a fare il bagno nel fiume due volte. Arrivammo a Vilusi, paese mezzo affogato nella pietraia carsica e mezzo nel verde dei prati sfalciati: delizioso. Al bar facemmo amicizia con un ceffo che sosteneva di essere il criminale locale, di essere stato al gabbio in Italia e di essere latitante nel suo stesso paese natio dove, incredibilmente, nessuno lo cercava. Denis ne era affascinato. Io sulle prime fui guardingo, ma alla terza birra ero lì per lì dal farmi un autoscatto con lui, che nel frattempo mescolava fragorose risate ad aneddoti tratti dalla sua vita nei bassifondi. Ma non era finita. Con le birre mi salì un malessere mai provato prima, a posteriori credo fosse un’insolazione. Provai a mangiare una minestra ma vomitai tutto fuori dall’osteria, sul ciglio della strada. Nel frattempo sudavo. Non riuscivo nemmeno a stare seduto, né fermo. Denis, come una mamma triste col figlio in high da eroina, fece tutto per me: montò la tenda e sistemò il mio bagaglio, mentre io mi aggiravo per la boscaglia all’imbrunire, incapace di stare fermo, come una bestia braccata. Temevo di non riuscire a dormire, invece con sollievo scoprii che stare sdraiato mi riusciva benissimo, quindi mi addormentai in un minuto senza dire niente, vegliato da Denis, e il giorno dopo stavo da dio. Non so neanche se l’ho mai ringraziato.

Balzan Federico nr 02

Riassunto di paesaggio montenegrino.

Il viaggio proseguì e ci furono una marea di cose buffe e belle. Denis ad esempio aveva le mutande talmente vecchie che l’elastico non teneva più e gli cadevano, e io le ribattezzai le pornomutande. Una volta, passando per un gruppo di case, c’era un folle che faceva un gran baccano sbatacchiando gli zoccoli di legno, e nel frattempo urlava qualcosa tipo GNUAAARGH con lo sguardo perso nel vuoto e noi ci cagammo sotto. Quando giungemmo alla riserva di Biogradska Gora, in teoria una deviazione per far contento me, il naturalista dei due, Denis fu talmente affascinato da quegli alberi giganteschi(2) che si mise ad abbracciare i tronchi come un fricchettone californiano, e io rimasi interdetto. O di quella volta che chiesi informazioni parlando lentamente in inglese e facendo gesti ad una contadina al lavoro nella piana di Gornje Polje per poter campeggiare sotto il noce del suo campo, e lei mi rispose sorridendo con pronuncia perfetta che certamente acconsentiva, e scoprimmo dopo che era una professoressa di inglese.

Nelle lunghe ore di pedalate, chiacchieravamo e favoleggiavamo di incontrare qualche bella ragazza montenegrina, che non so se lo sapete è, secondo alcune fonti, la popolazione più alta del mondo (sì: anche più di scandinavi, canadesi eccetera). E altezza mezza bellezza, come diceva mia nonna.

Il paesaggio dell’entroterra nel frattempo faceva da sfondo: ampie depressioni carsiche, montagne calcaree che in fondo sembrano un po’ le nostre Marmarole, ruralità straripante, fienagioni in corso, contadini sui carri, strisce di rifiuti ai lati delle strade principali. I campeggi non esistevano e si piantava la tenda sulla cima dei poggi e ci si lavava nei fiumi, da veri duri. Insomma, il massimo per la nostra filosofia di viaggio.

Già, ma qual è dunque questa filosofia? Nel titolo parlo di escursionisti-ciclisti, un accostamento da me inventato, che è diverso dal ciclo-escursionismo, in cui si va su strade bianche e sentieri ma pur sempre si pedala, o al massimo si “spalleggia” per brevi tratti ma non ci si separa mai dalla bici. Forse per un qualche mio “percorso interiore”, io contemplo la bicicletta per andare su strade asfaltate minori e strade bianche. Oltre (sentieri, prati e rocce) preferisco andare a piedi, gesto che comunque mi piace tantissimo. Se arrivo con la bici in cima ad un passo stradale e vedo che da lì parte un sentiero per una montagna che mi attrae, amo la libertà di mollare la bici dentro un cespuglio e salire a piedi sulla cima con uno zainetto leggero. Poi ritorno e continuo a pedalare, o se si è fatto tardi monto la tenda nei pressi.

Talvolta, sebbene mi piaccia il gesto della pedalata, l’impostazione delle curve, il brivido della discesa eccetera, penso di usare la bicicletta soprattutto come uno strumento finalizzato a trasportare i bagagli, necessario quando si sta via per lungo tempo in autonomia a far finta di essere Knulp, con l’approccio lento di chi va a piedi. Prediligo, come si vede, le zone rurali e naturali con saliscendi. In generale, cerco di essere frugale, perché aiuta a fare incontri con la gente, visto che c’è tanta gente gentile che merita di essere incontrata.

Infine, amo le mountain bike di fine anni ’90 perché sono di robusto acciaio, le trovi usate a pochi soldi, ci puoi montare il portapacchi, le so aggiustare anch’io che come meccanico sono un macellaio messicano e se te le rubano amen.

***

Ed ecco ora l’aneddoto migliore della vacanza: stavamo praticando l’essenza dell’escursionismo-ciclismo ossia, dopo una giornata di pedalate su strade rurali, avevamo occultato le bici nei boschi presso i laghi del Durmitor per salire a piedi gli ulteriori novecento metri di dislivello fino alla cima del Bobotov Kuk, la seconda montagna più alta del Montenegro, per godere del tramonto.

Sali e sali, eravamo ormai sulla crestina rocciosa finale della montagna, da percorrere camminando e mettendo giù le mani ogni tanto. Denis, ovviamente, mi precedeva. Ad un certo punto, mancavano pochi metri alla vetta, lo vidi protendersi all’indietro sbucando con la testa tra due massi calcarei in bilico.

«Ci sono due ragazzi nudi in cima!» annunciò.

«Eh? Cosa?» riuscii a farfugliare mezzo accecato dal sole radente e dal sudore che mi colava sugli occhi miopi. Nel frattempo però allungai il collo per vedere meglio.

«…e si stanno anche inc*lando!» aggiunse.

Il mio cervello andò in tilt.

Nei concitati successivi istanti, i due ragazzi si rivestirono precipitosamente, e noi arrivammo sulla cima con estrema lentezza, fingendo di aver guardato fino ad allora il panorama circostante. Io, nello specifico, osservavo accuratamente le mie scarpe, come ad interrogarle sul da farsi.

Smozzicammo un saluto, dicemmo le nostre rispettive nazionalità (loro erano tedeschi, ed erano circa nostri coetanei). L’imbarazzo era evidente. Denis lo affrontò domandando con candore, nel suo inglese che pare parlato da un pakistano: «Can you take a picture of us?»

Gli lanciai un’occhiataccia e gli dissi, in dialetto bellunese, sia mai che i tedeschi capissero l’italiano, che non mi pareva una bella idea dargli in mano la mia macchina fotografica visto che fino a pochi istanti prima quelle mani si stringevano reciprocamente il caz*o.

«Sarai mica omofobo?» incalzò Denis.

Risposi balbettando che no, ero progressista socialdemocratico e ovviamente il problema era esclusivamente di igiene e, sempre in dialetto, iniziai a perorare la causa dei diritti di genere, del libero amore eccetera. «E se fossero state due ragazze, saresti stato così schifiltoso?» replicò trionfante. L’arringa mi morì presto in gola, sostituita dalla vergogna.

La foto si fece. I tedeschi erano pure simpatici e l’imbarazzo si dissolse e ci rilassammo, come è giusto fosse tra persone intelligenti in cima ad una bella montagna in una memorabile serata estiva. Beninteso, al loro posto l’avrei fatto anch’io, intendo l’amore - non con Denis, certo - se mi fossi trovato lì con una tosa bendisposta a fare altrettanto, alle otto di sera in una delle giornate più lunghe dell’anno.

Il sole sprofondò all’orizzonte. Scendemmo e piantammo il campo in mezzo alla prateria zeppa di sassi, si alzò un vento che ululò tutta la notte e io temetti che la mia tenda acquistata al supermercato si lacerasse.

Balzan Federico nr 03

Ci si lava nei fiumi con (poco) sapone biodegradabile.

Infine, una delle cose più belle del viaggio fu una discesa poco pendente di ben quaranta chilometri percorsa nelle ore del tramonto. Ricordo di aver pensato che se ci fosse un paradiso (ma non c’è) sarebbe bello fosse così: rettilineo, un tornante in vista, pinzare il freno sinistro per caricare l’avantreno, “sentire” la bici che si acquatta come un gatto, sfiorare il freno destro appena prima dell’ingresso in curva, disegnare la traiettoria, rilanciare in uscita frullando duettrè pedalate, lasciarsi trasportare in basso dalla gravità, strizzando un po’ gli occhi. Avanti così, per l’eternità.

La discesa durò a lungo. Ho ancora vivo il ricordo di Denis che si ferma ad accarezzare i cavalli in mezzo alla strada, e poi noi che scendiamo euforici e felici e ci sorpassiamo a vicenda ridendo e già mimando la scenetta della montagna, mollando le mani dal manubrio per fare l’aeroplano, con l’odore del timo tra i lampi viola della poligala. E la piana di Podgorica laggiù in fondo ormai in ombra, ma noi ancora su, nel bagno di luce del sole arancione, con milioni di chilometri da percorrere e ancora tanto tempo da solcare prima di sprofondare nella notte, l’aria calda sulla pelle e il gusto di poter semplificare la nostra vita al punto di dover pensare solo alle prossime dieci pedalate, non ai prossimi dieci anni.

***

Al ritorno la Škoda era tutta impolverata nel parcheggio: era rimasta lì per settimane in balìa degli eventi. Il finestrino lato guida aveva un segno come di qualcuno che avesse disegnato con la manica un oblò nel sudiciume, per vedere se dentro ci fosse qualcosa da rubare.

Ma la macchina era lì, intatta, e nessuno aveva rubato niente.

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(1) In realtà Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Qua bisogna stare attenti a non fare casino, che è pieno di Stati ed etnie, ed in genere se sbagli si incazzano, ed hanno ragione.

(2) Qui si trova l'abete bianco più alto e più grosso del mondo!

Crediti: la frase delle dieci pedalate e dei dieci anni è presa, mutuata, da una pubblicità su una rivista cartacea di montagna di tanti anni fa.

 

Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020

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SILENZI

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La stanza era piena di tutto. Piccola, stretta, calda: sulle diverse mensole, tra una pentola e una bottiglia vuota erano posati dei libri, sopra i mobili, vicino al letto e sparsi in giro numerosi altri: la passione della lettura era sempre stata la sua àncora, la sua bussola, e forse il suo salvagente in mezzo alla tempesta. Ed erano proprio i libri di montagna che lo rendevano felice, che lo facevano sognare.

Estratto da Matteo Bertolotti dal libro Silenzi

#silenzi #bubola #vividolomiti #machebello #letturedatreno

LE DOLOMITI FANNO

Le Dolomiti fanno

La verità è che nei mesi di aprile e maggio, con le chiazze di neve e l’erba ancora gialla, oppure nei mesi di novembre-dicembre-gennaio (se non nevica), talvolta finanche a febbraio-marzo, se permangono le condizioni di cui sopra, con la fosca aria carica di umidità di luglio e agosto (prima del temporale), oppure se non iper saturiamo o contrastiamo le nostre immagini, o le trasformiamo in bianco e nero, se non siamo nella morbida luce dell’alba o del tramonto, se il tempo è nuvoloso senza il classico raggio di sole che sbuca, oppure se siamo nel riverbero della luce del mezzodì, oppure se c’è una strada in mezzo, un pilone di seggiovia, troppa gente, se abbiamo perso il breve tempo della fioritura che volevamo, se abbiamo solo il cellulare, se non giriamo l’inquadratura ad arte e si vede che arrampichiamo sull’appoggiato e non in strapiombo, se ci preoccupa la discesa e il mal di ginocchia, se siamo soli e tristi… se insomma siamo in una condizione che generalmente quassù si incontra spesso, salvo botte di culo… concludendo se è vero tutto questo (e non è vera l’iconografia magniloquente che attinge a piene mani dalle particolarissime condizioni contrarie) allora solitamente le Dolomiti fanno schifo.

ANNI CIRCOLARI

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Piove fitto e rivoli d’acqua iniziano a scorrere giù per lo spigolo di calcare del Sass Lonc, un’anima di circa duecentocinquanta milioni di anni, un profilo di dieci, lo zoccolo alla base lisciato dai ghiacci ventimila anni fa. E poi una grande frana staccata lì sulla nicchia in alto ai tempi del Medioevo, un chiodo arrugginito piantato negli anni quaranta del secolo scorso, un friend di una cordata polacca rimasto incastrato alcune estati fa, due mani dentro la fessura, ora.

Lisa ha ventidue anni e sale con le braccia protese verso l’alto, le corde tese da Luca che è rannicchiato in sosta trenta metri sopra. L’acqua fluisce dall’alto lungo l’apertura delle maniche della giacca impermeabile e già la bagna tutta.

«Come va?» chiede Luca con tutta la voce che può. E intanto tiene due mani sulle corde ma vorrebbe mettere al riparo la GoPro ancora agganciata al casco.

«Vaffanculo!» urla Lisa. Ma ride. Con un riso di pelle giovane che, nossignori, non le procura alcuna ruga sul volto. Tasta appigli sdrucciolevoli e non ha tempo di ricambiare lo sguardo del profilo seghettato del costone del Bances, un’utopia in equilibrio per chissà quanto tempo ancora. Non manca molto alla cima, e poi si scenderà il ghiaione dall’altra parte, verso il paese di confine. Le difficoltà sono modeste, è solo un gioco e nulla più.

Il libro di cima, sbrecciato e quasi illeggibile, riporta che un’altra Lisa passò di qua, settant’anni fa, nell’estate del 1947. Con lei c’era Arturo, le pedule ai piedi e i canapi tra le mani. Entrambi ventenni, erano però leggermente vecchi di guerra.

«Come va?» chiede Arturo appeso alle scaglie dello spigolo.

«C’è mica una cengia d’erba su questa parete?»

«A che ti serve?»

«A fare l’amore con te».

Arturo sorride. «Non aspettiamo la cima?»

Lisa sorride a sua volta, ma sta già guardando il costone del Bances e le sue merlature corrugate, irte verso il cielo, percorse dentro e fuori dalla brezza del tardo pomeriggio.

Piove ancora, ora leggermente. Luca recupera le corde per l’ultima volta, le matasse colorate aumentano e gli danno misura di lei che s’avvicina. Eccoli in vetta.

«Dal Sass Lonc si capisce New York, ma da New York non si capisce il Sass Lonc» dice Lisa con la calma e lo sguardo teatrale di un Corto Maltese fuor d’acqua, gli occhi socchiusi a guardare il panorama annuvolato attorno.

«L’hai copiata da Bertolt Brecht?»

«Scemo, lo diceva sempre mia bisnonna Lisa».

Dice questo e poi se ne resta così, in piedi sulla pietra bagnata come un pane inzuppato, senza sapere bene cosa intendesse la bisnonna, passata di là molti anni prima, da pioniere dell’arrampicata. Se fosse metafora di un punto di vista periferico che vede meglio il centro, di sguardi non convenzionali, oppure di rapporti insondabili tra passato e futuro, che ancora non sappiamo se stiamo reinterpretando o rinnovando, azzeccando o sbagliando.

Prima di scendere a piedi, Lisa raccatta velocemente tutto il materiale alpinistico e getta un ultimo sguardo giù, lungo la parete appena percorsa. Lì nel mezzo, un po’ verso destra, che se ci fosse il sole del tramonto ne sarebbe baciata, c’è una cengia erbosa piena di macchie bianche che da qui non si distinguono, e Lisa rimane incerta se siano pietre immobili o asfodeli che ondeggiano al vento.

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Federico Balzan 

L’ultramontagna

Everest Tofana

| Everest e Tofana di Rozes |

Ci fu un momento della sua vita, diciamo nella mezza età, in cui Gabriele si interessò ai criteri di classificazione con i quali gli uomini gestiscono la conoscenza geografica delle montagne. In quel periodo studiò meticolosamente gli Ottomila himalayani, i Seimila peruviani, i Quattromila delle Alpi, i Tremila delle Dolomiti e della Patagonia, le Seven Summits degli altrettanti continenti, la lista delle montagne oltre i sessanta gradi di latitudine nord e sud e così via. Si interessò di statistiche, di prime salite assolute, invernali, femminili, per ciascuna nazionalità eccetera. Vide, come è ovvio, che gli uomini e le donne tendono a classificare ciò che sta loro intorno. Interpretò ciò come necessaria pratica per mettere ordine nelle cose della vita, ma in fondo prassi un po’ meschina e riduttiva, almeno nel mondo presumibilmente avventuroso e creativo dell’alpinismo.

Osservò che tuttavia non mancava un approccio diffuso, una controcultura diciamo, tesa – fin dall’inizio dell’alpinismo – a valori meno statistici e più estetici: pensava alla salita, effettuata nel 1958, di Bonatti e Mauri al Gasherbrum IV, una cima di 7.925 metri, di poco sotto alla fatidica cifra degli Ottomila quindi, soglia che in genere porta lustro e reputazione. O, prima ancora, la scelta di alcuni pionieri di scalare le pareti per la via più difficile, senza badare al raggiungimento della cima.

Talvolta però gli sembrò che l’ostentazione stessa dell’attenzione per le cime dimenticate, selvagge e disgraziate fosse diventata essa stessa un cliché, in fondo specchio della ambizione e della superbia degli alpinisti.

Gabriele non stava tuttavia scoprendo o inventando nulla di nuovo e, per quella sottile stilla di ambizione che anche gli uomini più indolenti hanno, desiderava a tutti i costi ideare, sull’argomento, una nuova visione delle cose, una qualche sorta di archetipo visionario dal quale non poter prescindere, non ancora ben definito nella sua mente.

Come nel Suiseki, arte giapponese di disporre le pietre trovate in natura per favorire la meditazione, spesso a forma di montagna in miniatura, pensò che, anziché arrovellarsi a scalare un grande numero di montagne, o all’esser schiavi delle classificazioni per concordanza o per contrasto, valeva la pena individuare quella che concentrava su di sé tutti gli archetipi possibili, e lì condurre quindi la salita della vita, l’unica possibile. Questa sarebbe stata la sua ultramontagna, forse addirittura l’ultramontagna di tutta l’umanità.

Machhapuchhtre Cervino

| Machapuchare (Nepal) e Cervino |

Iniziò a passare le serate con i gomiti appoggiati sul tavolo di larice del suo studio, nella piccola città ai piedi delle montagne. Il sole di giugno calava tardi, e quando non poteva più il sole, una grossa lampada illuminava le dita posate sulle tempie in un atto di concentrazione. In quelle sere, lavorò molto sull’iconografia e sull’acquisire le nozioni basilari di geomorfologia, ma anche sulla geometria dei solidi, sulla letteratura alpinistica, sulla petrografia, sulla fisica. Il concetto-faro gli parve fin da subito quello del triangolo isoscele acutangolo. La montagna aguzza, simmetrica e perfetta, così come la disegnano, in forma stereotipata, anche i bambini. Da lì si poteva lavorare sul ruolo determinante dell’angolo di attrito statico, dipendete dalla qualità della roccia e dalla sua tessitura, nel determinare la verticalità della parete. E poi, le forme altrettanto ricorrenti come le cime bifide unite da un ventaglio a coda di rondine, i cambi di pendenza dovuti ai sovrascorrimenti di vetta, le conche di sovraescavazione dovute ai ghiacciai pensili eccetera. Più studiava e più gli archetipi aumentavano, in una frustrante sensazione di complessità in aumento, anziché di sintesi in via di rivelazione. Inoltre, Gabriele era un pigro, e pensò che forse, in fondo, una ricerca iconografica completa avrebbe richiesto troppo tempo e non si sarebbe mai arrivati ad una conclusione certa. Del resto qualche montagna remota avrebbe potuto sempre offrire nuovi spunti o, peggio, ribaltare le certezze acquisite in precedenza. Qualche scappatoia, pensò, era forse possibile.

L’ennesimo pomeriggio passato sui libri, ormai nell’aria la fine di quell’estate piovosa. Si alzò dalla sedia e guardò alla finestra, sopraffatto dalla frustrazione della sua ricerca senza sbocco. Dalla sua casa ai bordi delle Alpi vedeva una modesta cima, quella che occupava l’orizzonte dalla sua nascita, duemila metri e poco più, con una paretina sommitale percorsa qua e là da rassicuranti cenge erbose, che a cercare la difficoltà avrebbe regalato qualche passo di terzo grado al massimo, inframmezzato da tratti in cui era sufficiente camminare. La parete era poco ripida e breve e, soprattutto, il punto sommitale non culminava in un aguzzo vertice, ma in una tozza e vasta cima levigata da un antico circo glaciale. No, di certo non sarebbe andata bene per le sue ambizioni.

K2 Duranno

| K2 e Duranno |

La Cima Rotta, quello era appunto il nome della montagna che gli si parava davanti e che sembrava una donna invecchiata ed imbruttita rispetto alle tante montagne vagheggiate, gonfie di ghiaccio bianchissimo lungo i fianchi, non poteva e mai avrebbe potuto essere un’ultramontagna, la condensazione di tutti gli archetipi verticali. Non valeva nessuna furberia retorica sulla proporzionalità relativa rispetto alla propria esperienza personale o capacità individuale, non andava bene nemmeno addurre una scorciatoia filosofica o di serendipità, andando ad riconoscere che di qua e di là tra le pieghe, forse, si nascondevano arcani segreti che, se ben predisposti, avrebbero potuto rivelarsi. Infine, non sarebbe mai esistita nessuna condizione atmosferica – vento, neve bagnata attaccata sulla verticale eccetera - tale da erigerla ad una almeno dignitosa forma iconica. Insomma non era nient’altro che una brutta ed anonima montagna, ai margini delle Alpi, rugosa, levigata e imbolsita.

Pensava a tutto questo appoggiato coi gomiti al davanzale e fu in quel momento, d’improvviso, che la Cima Rotta, forse per le continue piogge dell’ultimo mese, che avevano saturato gli acquiferi, iniziò a inclinarsi leggermente e quindi a precipitare. Sì udì un tremendo crac che, viaggiando più lentamente rispetto alla scena, nell’aria densa, arrivò all’orecchio di Gabriele alcuni secondi dopo rispetto all’immagine della montagna che ruotava, con quel senso di irrealtà come quando si scorgono da lontano i boscaioli che battono le accette sui tronchi, e il suono non è coordinato ai loro movimenti ma si alterna al su e giù della loro figura, come in un semiperiodo di una partitura musicale, condotto in levare dalle spazzole di una batteria jazz.

Dapprima questa massa proterva sembrò un’allucinazione, ma in una frazione di secondo Gabriele si rese conto che il magnifico orrore stava accadendo davvero. Ruotando su se stessa, il basamento come perno, in pochi istanti la montagna crollava ad una velocità vertiginosa, sormontandosi in enormi spaccature.

Con un immenso boato tutta la struttura sommitale, per un’altezza di cinquecento metri di roccia almeno, andò a schiantarsi sul fondo della stretta valle, colmandola di rovina, per fortuna mantenendosi abbastanza distante dal primo paese, appeso su un costone. Era una cosa inaudita, ciclopica, mai vista, da tramandare per i prossimi secoli.

Dopo solo una decina di secondi la polvere dello schianto si levava su e ancora su per centinaia e migliaia di metri, e nel cielo estivo apparentemente indifferente, di un blu cobalto uniforme, così come proiettata nella rètina di Gabriele, identica ma immensamente rimpicciolita e capovolta dopo il chiasmo del cristallino, pareva prendesse la forma – tra pieghe, pareti e pilastri - di una gigantesca montagna inaccessibile, si sarebbe detto però per nulla aguzza e affusolata, piuttosto dalla forma tozza, gibbosa e fiacca di trapezio ottusangolo.

 

 

Marmolada Marmolada

| Marmolada e Marmolada |

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Crediti:

  • La definizione di Ultramontagna è ispirata alla quasi analoga Ultravetta del film Chiedilo a Keinwunder. Se ho ben capito il film, tuttavia, la metafora sottesa rimanda a un significato un po’ diverso rispetto a quella che vorrei intesa con questo mio racconto.
  • Le varie foto, rielaborate, sono predate dal web. Per chi volesse venire a prendermi per rimostranze, abito nella misteriosa città del racconto.

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Federico Balzan

Mobile ed immobile

Alpinisti telefonino

«…per facili roccette si giunge indi sulla perigliosa vetta, dopo un’aerea lotta con l’Alpe in continua esposizione. Dalla cima lo sguardo spazia tosto tra i contatti di whatsapp, gli appuntamenti di facebook, le notifiche di twitter».

#montagna #roccette #Dolomiti #alpinisti

Alla ventura! Alla sventura!

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| Cefalopodi |

Una mattina, Renato C. partì con una mountain bike sgangheratain una pianura che più piatta non si può, per andare da una città coi piedi nella laguna ad un’altra poco distante, viaggiando da est a ovest. Alla sua destra, all’orizzonte lontano cento chilometri, si ergeva una corona di immote montagne, una fetta visibile di un arco smisurato.

Pedalò per circa due ore e non gli riuscì di capire dove finisse una città e ne iniziasse un’altra: c’erano solo la continuità delle grandi rotonde, il nastro d’asfalto, i centri commerciali brulicanti, le villette recintate, i cartelli stradali, le insegne colorate, la fila sghemba d’automobili, la striscia di rifiuti ai lati della strada.

Poco prima della destinazione, in periferia, si fermò a fumare di controvoglia una sigaretta, seduto sul muretto di una stazione di servizio. Una di quelle sigarette tenute di sguincio, che rendono gli uomini un po’ drammatici, come il vento quando disegna panneggi sugli abiti ampi e leggeri.

Alla terza boccata chiuse gli occhi, e sotto i suoi piedi vide fluttuare un enorme tappeto nerastro, dall’incedere di liquido denso. Lo spessore ricopriva già interamente tutta la pianura, non un solo centimetro ne restava immune. Con scuri tentacoli di cefalopode saliva lungo il fondo delle grandi valli alpine, ed ecco che già si spingeva molto in alto, seguendo ora le piste forestali, ora le direttrici delle funivie, le erte delle piste da sci. Rami sottili, come luppolo rampicante, si insinuavano infine su per le vie ferrate a conquistare già alcune vette, presidio della fatale avanzata.

Spense il mozzicone, scacciando quella fantasia. Non seppe se ribellarsi o meno ad essa. In fondo ne sapeva ben poco di montagne e di avventure negate. Gli parve, inoltre, che quella pianura fosse sempre stata così com’era, densa di sicurezze antropiche. Gliene sfuggiva la memoria storica.

Osservò alcune formiche affaccendarsi sul cemento del muricciolo. Si immaginò piccolo piccolo, a marciare assieme a loro. Divenne alto due millimetri soltanto, antenne e mandibole a quel punto incutevano paura. Schivò piccole crepe tramutatesi in voragini e ciuffi d’erba simili a foreste intricate. E, tra enormi relitti di lattine accartocciate e bottiglie di plastica, come navi arrugginite in secca nel lago d’Aral prosciugato, vide una formica che lo fissava con opachi occhi neri, silenziosi ed inespressivi, ciascuno grande quanto un suo pugno. E lì per lì Renato, che non era esperto di insetti, non avrebbe saputo dire se fossero occhi minacciosi o mansueti, carichi di interrogativi o di risposte, sottendenti giudizi o indulgenze.

Acuì i sensi, e udì un flebile e prolungato fischio, di richiamo.

Vide che l’insetto gli tendeva lentamente una zampa, in un gesto di salvezza.

 

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Crediti: l’immagine dell’insetto che tende la zampa è ispirata dal racconto Non aspettavano altro di Dino Buzzati, solo che in quel caso è una donna, peraltro di dimensioni normali, che tende la mano verso l’insetto (un grillo) in cerca di aiuto e non viceversa. Impossibile resistere.

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Federico Balzan

In viaggio sulle Orobie 2015

Estratto del blog del viaggio per conto della rivista Orobie, luglio 2015.

Copertina - light

www.orobie.it

 

|  Sfocature

7 luglio 2015

2015 07 07 Sfocature

| Sfocature a due giorni dalla partenza |

Immaginate una linea continua, un tragitto, che percorra tutte le Alpi Orobie, da est a ovest, per decine di chilometri. Questa linea è una faglia, ossia una gigantesca frattura che permette un movimento tra due masse di roccia. Attorno ad essa la crosta primitiva, milioni di anni fa, bilateralmente si è accavallata, piegata, deformata, adattata, rotta, scoperta e celata. In pochi altri settori delle Alpi la geologia è, come qui, così complessa, varia ed articolata.

E questa tormentata storia geologica diventa, si capisce, l’origine delle ricchezze di queste valli: ecco che la diversità dell’orografia genera diversità di suoli; e la diversità di suoli genera quella degli ambienti che, a sua volta, genera diversità di flora e di fauna. E infine, perché no, di colture e di culture.

Immaginatene ora un altro, di percorso, fatto di donne e uomini dalle esperienze ed età diverse: contadini con le mani indurite ma dai gesti precisi, musicisti anch’essi con i loro piccoli calli localizzati laddove essi accarezzano le corde, i tasti, i fori degli strumenti; e poi alpinisti solcati, sui volti, dalle dure esperienze dei bivacchi in parete o in quota, sportivi abituati a fare i conti con la fatica, attori di ricerca, solitari sul palco durante i loro monologhi, fotografi silenziosi in un’alba gelida, cuochi attenti alle piccole sfumature dei sapori nei piatti.

Ciascuno con la sua diversità, essi proveranno a dare uno sguardo, un contributo alle valli che attraverseranno, pronti però anche a ricevere dagli inevitabili incontri che ci saranno.

“In viaggio sulle Orobie 2015” potrebbe essere anche questo. Ma non è detto, potrebbe essere qualcosa di più, qualcosa di diverso con direzioni inaspettate. Per ora ci sono le idee sfocate in partenza, come qualsiasi partenza. Il viaggio poi verrà da sé.

Si parte il 9 luglio dal paesino di Ornica e, se il toponimo non trae in inganno, cammineremo, almeno per un po’, con la fresca ombra degli ornielli, uscendo dal paese tra i muretti a secco con i radi ciuffi delle sassifraghe.

 

Crediti:

-      foto rielaborata da expo.bergamo.it


|  «Lo vedi? Siamo tutto quello che c’è attorno a noi.»

10 luglio 2015

2015 07 10 Siamo Dentro - light

| «Lo vedi? Siamo tutto quello che c’è attorno a noi. Siamo dentro» |

Ornica, Val d’Inferno, rifugio FALC, Premana, già il lago all’orizzonte.

È un’immersione al contrario. Non ci sono mute stagne, né pinne o boccagli.  Quasi fosse una lenta anaforesi, migrazione sotto l’influenza di un campo magnetico tra anodo e catodo, dovuta ad una forza che sembra irresistibile, saliamo senza fretta verso l’alto con il corpo, eppure spingendoci sempre più in profondità con la testa e con il fluire della nostra introspezione. E il tutto avviene quasi inconsapevolmente, con levità, senza nemmeno accorgersene.

I rapporti tra i viaggiatori pian piano si consolidano, si aprono; alle volte ci si prende bonariamente in giro, subito dopo ci si ascolta attenti. Ciascuno fa scorrere con naturalezza, tra le migliaia di passi, il suo contributo, la sua conoscenza.

Si sale, osservando l’iperico, il veratro, il farinello buon-enrico, la campanula barbata, la genziana lutea, l’acetosa e l’acetosella; erbe più o meno buone per il pascolo, altre buone per la nostra cucina, altre solo per i nostri occhi.

Giunti alla “bocca”, la forcella, valutiamo, sguardo all’indietro, la morfologia tormentata della valle. E, nello stesso cono di paesaggio, il contadino stima la degradazione di alcune porzioni del pascolo, interrogandosi su quali possano essere i passi per il suo recupero, l’alpinista è rapito, scartando a lato, dall’incombenza delle pareti spioventi, comunque invitanti nella loro repulsione, il fotografo naturalista ascolta attento il verso dell’allodola e segue la sua lunga planata nel cielo chiaro.

A poco a poco, cercando di scansare la retorica e la presunzione, ci si ritrova a pensare che forse, in modo diverso tra di noi, siamo tutto quello che c’è attorno a noi, ci siamo dentro. Siamo dentro, per davvero,  a queste montagne non solo col corpo, con discrezione, con esuberanza, ma anche con le nostre idee. Talvolta sognando la rivoluzione, talvolta invertendo la rotta di una strada già tentata, in continua sperimentazione.

Siamo una parentesi dell’industrializzazione che fu, oppure ne siamo il seguito. Senz’altro siamo in un’epoca di opportunità e sta a noi l’abbrivio e la fatica di trovare la strada nuova. Le Alpi, forse, possono esser da spunto.

La sera, nell’irripetibile atmosfera di un rifugio di montagna, Mario Curnis, decano degli alpinisti bergamaschi, mi guarda e da dietro la folta e candida barba bianca mi dice: «Io, da giovane, non ero mai stanco». Ma senza presunzione, così, quasi raccontando un fatto, un’ovvietà.

Collego la frase con le considerazioni di Ferdi Quarteroni, contadino di montagna, che poche ore prima mi ha fulminato, chiudendo un discorso appassionato e denso sul lavoro d’alpeggio, con questo sigillo: «Perché il lavoro in montagna, alla fine, dev’essere passione!». Veemenza e carisma.

E mi viene dunque da pensare che qualunque sarà il futuro, su cui abbiamo idee talvolta forse chiare, talvolta vaghe, necessariamente non potrà prescindere dalla fatica, ché alcune decadi di consumismo ci hanno reso estranea.

Il corno alpino di Martin Mayes, posato con un’estremità a galleggiare sull’acqua del lago di Como, vibra di toni profondi ed armonie per spazi aperti modulati con labbra, glottide e diaframma.

Le onde sonore si propagano, succedendosi, di qua e di là dell’increspato pelo dell’acqua; via etere, si sviluppano verso l’alto, rimbalzando di eco sul costone roccioso in fondo e risalendo – chissà – fino ai duemila metri delle praterie dalle quali siamo partiti stamane.

Dall’altro lato, con una diffrazione, sondano le profondità buie del lago, fino ai  sassi fangosi del fondo, immobili, solitari e misteriosi, laddove ci è dato poco di conoscere, e molto di fare congetture.

Il sole cala anzitempo, nascondendosi tra i dirupi a picco sul lago.

Domani, il viaggio e la ricerca proseguiranno.

 

Crediti:

-      foto di Klaus Dell’Orto.


|  Confini verticali

 11 luglio 2015

2015 07 11 Confini verticali - light

| Confini verticali ad incrocio |

Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.

Il testo è Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, l’anno è il 1994 e la mente era quella di Alexander Langer, politico, ambientalista, libero e lucido pensatore. Sempre mite e pronto al dialogo. Un uomo del quale, anche se non l’ho mai conosciuto, a distanza di vent’anni dalla morte, sento la mancanza.

Il contrabbando, tra Orobie e Svizzera, fu realtà storica di questi luoghi. Si transitava di qua e di là del confine, come bestie braccate, a metà strada tra la connivenza con l’ordine costituito e la paura vera di essere preda di un appostamento. E, in quei casi, la soluzione era, abbandonati i sacconi di juta, la rapida fuga lungo le pale ripide, mirando alla massima pendenza, giù, verticali, in fretta dannata. A cercar rifugio in qualche antro o spelonca di capre, rifiatare e ripartire. Anche col brutto tempo, l’erba sesleria bruciata dal gelo, i ramponi agganciati sotto le scarpe di cuoio consumato, che non fanno abbastanza presa sul terreno, sui quali mai fare troppo affidamento; come sulle nostre promesse agli altri, del resto.

Noi, oggi, percorriamo al contrario questi percorsi. Su una strada che fende la linea di massima pendenza salendo da Colonno, mirando a Casasco Intelvi. Siamo senza fiato e paonazzi in questo sole di luglio, increduli dell’ingegneria di questa linea che non conosce tornanti. Assurda per noi, funzionale però per i carichi di legna sulle slitte, la gravità amica nella discesa – a saperla dominare – vergognosamente ostile, quasi sciocca, in salita.

Oggi, tutti questi conflitti, queste difficoltà, almeno in questo pezzettino di terra, a noi sembrano quasi un mondo lontano, quasi fossero da prendere poco sul serio come una nevicata d’aprile. Ogni tanto ne scendono, di queste piccole bufere irridenti; arrivano dalla cresta là in alto, dove si abbarbica solo qualche pino mugo e dove noi mai abbiamo messo piede, e scendono leggere e discrete sopra i botton d’oro già fioriti. Ma bastano poche ore di sole, all’indomani o già nella inevitabile rischiarata pomeridiana, a farci dimenticare tutto. L’ansia per la legnaia piena non esiste più, ché la legnaia piena sembra non dover più servire, forse un altro inverno nemmeno arriverà.

Eppure i conflitti sono ovunque, non sono proprio una nevicata d’aprile. Talvolta sono pronti a scoppiare nuovamente, mai sopiti, un lieve tepore proprio al centro di una patata a cuocere sotto la cenere, quel punto invisibile che sotto la scorza mai si vede. Eccone uno sui monti dell’Armenia, in quel dannato confine con l’Azerbaijan, un altro ancora sulle aride montagne di Nuba in Sudan, e poi in Pakistan. E sulle Alpi?

Da Casasco Intelvi, la nostra meta di fine giornata, si vede una grande porzione del lungo lago glaciale dall’alto, si domina quasi. Le increspature dell’acqua, da lontanissimo, balenano di lampi bianchi intermittenti. Ma l’aspetto più interessante da qui, come dovunque nel mondo, sono i rami che non si vedono. Tutte quelle migliaia di insenature, con la mota calda, un’isola rocciosa, i carpini a specchiarsi sull’acqua fredda. Porzioni che per ora sono invisibili, oltre il confine, da raggiungere, se necessario, con disobbedienti azioni di contrabbando.


|  Strategia d’uscita

14 luglio 2015

2015 07 13 Strategia duscita| Anni |

Gli anni non sono un dettaglio. Passano. Si stratificano gli uni sugli altri e talvolta creano pareti di calcare alte anche ottocento metri. Millimetro dopo millimetro, con piccole variazioni tra gli interstizi, giganteggiano nella loro struttura densa di piccole nummuliti. Alle volte ne bastano pochi, solo quattro, come ci è stato spiegato, per mutare il gusto di un formaggio, nella stagionatura. Infine, anche la conoscenza passa, testimone in continua variazione del tempo che scorre.

Ogni montagna può diventare montagna incantata, come quella della metafora di Thomas Mann, come ciascuna delle decine che abbiamo attraversato a piedi in questi quattro giorni. Ad ogni passo e ad ogni viaggiatore, muta di polimorfe variazioni, talvolta imprevedibili.

Consideriamo per un istante, appunto, l’incipit di questo romanzo, che nel corso di ottant’anni ha subito, nella traduzione italiana, alcune variazioni stilistiche. Eccole.

Un giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città natale, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane in visita presso un suo parente.

[traduzione di Bice Giachetti-Sorteni, casa editrice Modernissima, 1932]

 Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane.

[traduzione di Ervino Poca, casa editrice Mondadori, 1965]

 Un giovane uomo come tanti era partito da Amburgo, sua città natale, diretto in piena estate a Davos-Platz, nel Cantone dei Grigioni. Vi si recava in visita per tre settimane.

[traduzione di Renata Colorni, casa editrice Mondadori, collana Meridiani, 2010]

 Nel colmo dell'estate, un comune giovanotto partito da Ornica, sua città natale, se ne andava ad Arogno, nel Canton Ticino, per un soggiorno indefinito.

[interpretazione, 2015]

Son tre libri diversi? E la nostra esperienza, darà mai un ulteriore senso, in aggiunta, ad un libro già stampato, apparentemente fissato?

Vien da dire di sì, che le opere d’arte, quelle classiche, si sanno adattare ai nuovi contesti, sono perennemente interpretabili, immortali eccetera. Nulla di nuovo, in fondo. Ma forse, osando, potremmo spingerci anche oltre, e arrivare a dire che sono i libri la proiezione delle nostre esperienze, che siamo noi stessi a scriverli, ad elevarli in una dimensione che nemmeno l’Autore ha mai immaginato, quando di un personaggio rappresentiamo anche i tratti che non sono davvero descritti, e che prendiamo a prestito dalle nostre relazioni.

Queste riflessioni scorrono nella mia mente, aleggiano sopra il nostro lungo serpentone di viandanti e contrabbandieri – per un giorno – in fila ciarliera coperti da una fitta faggeta, destinazione Svizzera. Il viaggio volge al termine, ciascuno pensa alla propria strategia d’uscita, ossia ad una condotta orientata a una transizione dalla situazione attuale, che abbiamo percepito come necessaria di un cambiamento.

Siamo arrivati ad Arogno, accolti meravigliosamente da un paese in festa. Sfiliamo quasi in passerella, felici e grati. Più tardi, nel culmine delle celebrazioni, che imperversano nella piazza centrale, cerco un istante di calma e solitudine camminando verso l’esterno della borgata, nell’ombra di pietra dei vicoli stretti ed antichi. Dopo poche decine di metri, è già il silenzio. In fondo ad uno slargo, una finestra è aperta e intravvedo un grande mobile di legno sverniciato colmo di libri.

I libri sono chiusi, stipati tra di loro. L’aria è immobile e la casa, presumo, vuota. Con le pagine serrate le lettere che, sotto i nostri occhi nella lettura, sviluppano meravigliosi o banali concetti, adesso arrivano a toccarsi, le facciate dispari sulle pari, a contatto strettissimo. Le bave dell’inchiostro si sovrappongono, creando intrecci impensabili e fantastici, sequenze forse casuali, forse ordinate. Nessuno però può vedere questo prodigio, ché ad aprire, anche di fretta, il libro, il mistero svanirebbe. Ed è in questi momenti, quando noi non ci siamo, e dormiamo, siamo assenti, occupati a sopravvivere, a fantasticare, che i libri possono finalmente, sovrani, adoperare le lettere a loro disposizione, e finalmente mischiarle in modo pazzo, dando vita a fulminanti calembour, finali grotteschi, nuove filosofie trascendenti, frasi oscene e irriverenti, massimi sistemi, nonsense, capolavori di prosa erudita e semplici liste della spesa. Finalmente liberi e ribelli, ma in fondo sempre semplici ed uguali a sé stessi, facilmente decodificabili come un paio di scarponi di cuoio, su e giù, per un lungo sentiero, in una continua alternanza di passi e pensieri.

  

Crediti:

-      la frase “Gli anni non sono un dettaglio. Passano.” è dell’amico Gianpaolo.

-     le tre traduzioni della Montagna incantata sono messe a confronto in un articolo di Claudio Mussio, www.germanistica.net

 

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Federico Balzan

IN MONTAGNA PER "SLOGARSI", NON LA CAVIGLIA

IN MONTAGNA PER SLOGARSI, NON LA CAVIGLIA

(Prima si ridacchia, poi si tenta un ragionamento)

 

Cretacico: il desiderio e la compiacenza.

Fu nell’estate del 2001, avevo vent’anni o giù di lì. Decisi che per essere un vero alpinista avevo bisogno di una vera giacca, possibilmente una di quelle rosse con le toppe nere in contrasto sulle spalle, in Gore-tex® ovviamente. L’avevo capito sfogliando l’annuario fotografico di fine millennio di ALP e, soprattutto, sudando mille camicie durante la traversata - con i nuovi amichetti universitari, selvaggi come e più di me - del Parco Nazionale della Val Grande, chiuso in un vecchio pastrano da sci inutilmente imbottito e troppo ampio, sotto il riverbero del sole sulla neve in un magnifico aprile di libertà che i vent’anni, appunto, regalano.

Così, dopo un’adolescenza di ravani sulle crode con orribili e deformi pantaloni della tuta in cotone jersey, troppo caldi e troppo lenti ad asciugare, camicie di flanella, k-way del mercato indossate una sopra l’altra, zaino da escursionismo anni ’80 pieno di tasche inutili e con bastino in acciaio (parecchi newton di forza-peso in regalo) decisi, racimolato il gruzzolo, di affrontare la soglia di un negozio sportivo monomarca, allora per me un vero santuario, ed iniziare l’ammodernamento della mia immagine d’alta quota con il pezzo per eccellenza: la giacca da alpinismo, appunto.

Ne uscii con una giacca verde e non rossa (prevalse il mio spirito da naturalista, desideroso di mimetismo, rispetto ai soliti moniti CAI sulla visibilità in caso di incidente), ma soprattutto il fondo limitato dell’epoca, assieme alla mia tirchieria, permise l’acquisto di un capo sì di marca, ma con la membrana Hydroseal® anziché Gore-tex®. Il fatto che probabilmente nessuno dei lettori conosca o ricordi la membrana Hydroseal® lascia immediatamente intuire quanto la suddetta fosse una schifezza (presto fu infatti abbandonata dal produttore in questione), ma tant’è. Poco male perché, membrana a parte, la giacca era un autentico gioiello e soprattutto c’era lui, c’era un gigantesco logo THE NORTH FACE®, proprio così, in maiuscolo, bianco su nero e perciò visibilissimo. Anzi, ce n’erano addirittura due, uno davanti e uno dietro, speculari e bellissimi, pareva che dichiarassero in continuazione al mondo che dentro quell’involucro di poliammide guizzavano i muscoli e l’ardimento di un vero Alpinista®.

La giacca iniziò ad accompagnarmi durante le mie piccole e piccolissime avventure, in montagna e nei boschi, ma anche nella vita di tutti i giorni, cerimonie non escluse. Divenne onnipresente e dunque proverbiale nel giro dei miei amici. «Federico chi?» sentivo domandare. «Quel co la giaca vérda» rispondevano.

Giacca verde sequenza LT

Metà degli anni zero. La patacca che tanto assomiglia al profilo granitico dell’Half Dome (Yosemite, California) fa bella mostra di sé aggrappata perennemente alla mia spalla destra.

 

Paleogene: non sono solo.

Passarono gli anni: il vento faceva danzare il tessuto a piccoli sussulti, la pioggia ticchettava sul cappuccio sollevato, la membrana Hydroseal® tentava disperatamente di convincermi che la sua traspirazione era eccellente e tutta quella disagevole condensa interna era esclusivamente colpa della mia sudorazione eccessiva. Tante volte la giacca restava semplicemente appallottolata sul fondo dello zaino per tutta l’escursione, ma sapevo che quel mucchietto che mi portavo sempre dietro in caso di rogne mi avrebbe salvato la vita. Insomma furono anni di letizia e scoperte, estati ed inverni.

Poi, quella che all’epoca mi sembrava una giacca esclusiva, divenne lentamente convenzionale al grande pubblico. Il marchio occhieggiava ovunque, sulle cime come in pianura. E assieme a quello, tanti altri. L’abbigliamento da montagna, mi accorsi con acume, iniziava a sbarcare in città, esattamente con la stessa dinamica che aveva spinto me, appena prima, a fare altrettanto: comodità d’uso e soprattutto, malcelato e giovanile orgoglio nell’essere riconosciuto come uno di quelli che va in montagna.

Comunque, nessun trauma e quindi nessun cambiamento: forse non ero più l’unico ma – mi dissi – continuavo ad apprezzare la giacca per la sua comodità in caso di intemperie.

 

Neogene: la visione.

Poi accadde che finii il percorso di studi, feci chissà quali letture da Thoreau in giù, parlottai forse con qualche mezzo hippy o ubriacone/filosofo di paese, qui da me in Valbelluna. Fatto sta che un giorno, rovesciando il mio cassetto di vecchie foto in un pomeriggio di nuvolaglie, ebbi una visione: eccomi sulla cima Tal dei tali, sul monte Analogo, sull’onnipresente croda del Mezzodì, sul sempiterno costone delle Agnelèzze. Ovunque, nei miei primi piani sorridenti o nelle istantanee di presunta azione, ammiccavano due, tre, quattro loghi del mio ormai completo armamentario per la vita all’aria aperta. E le mie fotografie mischiavano la sagoma del campanile Toro sullo sfondo con un’invadente aquila Salewa® della maglietta in primo piano, le escrescenze della dolomia cariata, lì dove tenevo l’appiglio, con uno sgargiante lupo Camp® sul mio caschetto eccetera. E poi la fascetta Marmot®, la piccozza Grivel®, lo zaino Cassin®, i pantaloni Mello’s®, le moffole Haglöfs®, il maglione Berghaus®, gli scarponi LaSportiva®: dovunque onnipresenti e fastidiose ® a ricordarmi che, pur avendo pagato l’acquisto di un capo, contribuivo ogni giorno a farne pubblicità, a veicolare al mondo il suo marchio di successo, di intrepida lotta con l’alpe. Per un pomeriggio, anni di mie fotografie mi apparvero all’improvviso come tratte da un catalogo commerciale. Insomma, fu una maledizione. Mi convinsi che la diffusione del marchio era passata anche attraverso l’incessante pubblicità garantita dalla mia giacca verde a spasso per le Dolomiti per tanti anni. E vidi lo stesso sulle automobili, sugli elettrodomestici, sulle montature degli occhiali, ovunque. Potevo capire gli alpinisti sponsorizzati, ma io non avevo mai preso una lira o un euro per tutto questo!

Volevo iniziare la mia liberazione. Mi sentivo come il Duca d'Auge ne I fiori blu, che sale in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. Anch’io, come lui, la trovai poco chiara, tuttavia tentai una strada.

Simone Moro

Effetto “albero di Natale” (come scherzosamente dice un mio amico) su Simone Moro, alpinista professionista, con gli sponsor ad addobbare la giacca. Giustamente, secondo me, per l’alpinismo di punta sono necessari gli sponsor per affrontare i costi della logistica e non solo; quindi in questo caso la visibilità è necessaria e dovuta. Ma perché trasformare anche i dilettanti, in piccolo, in cartelloni pubblicitari viventi?

 

Quaternario: il comitato di liberazione (in minuscolo).

La forma di resistenza più decorosa mi sembrò infine l’atto dello slogarsi, ossia di eliminare i loghi dai capi già acquistati e di evitare l’acquisto di ulteriori capi con logo in evidenza (quest’ultimo aspetto ahimè quasi impossibile). Per la prima parte del discorso, andai avanti per un po’ con pennarelli indelebili a coprire le scritte e coltellini a rimuovere etichette. Va da sé che, nella mia paranoia iconoclasta (meglio forse logoclasta), in alcuni casi combinai qualche pasticcio: sbavature, costosi tessuti sgraziatamente lacerati eccetera. Era il prezzo da pagare per la battaglia.

Non solo: presi tastiera e monitor e scrissi a Mr. Yvon Chouinard (ovviamente filtrato da mille suoi sgherri che suppongo abbiano cestinato l’email al primo sbarramento, con uno sbadiglio) nientemeno che Mr. Patagonia®, il marchio di abbigliamento che più di ogni altro mi sembrava attento all’ambiente, all’essenzialità dell’andare in montagna, all’attenuazione del consumismo. Nel mio accalorato pamphlet spiegai al buon vecchio Yvon che io mi ritenevo senz’altro un anticipatore, e che avevo intuito che il futuro dell’abbigliamento da montagna e sportivo sarebbe stato quello di slogarsi, ossia di affrancare i consumatori dal ruolo passivo di paganti e promotori, cornuti e mazziati, e di voler avviare con lui, sotto la mia egida, un percorso di liberazione, dove il marchio sarebbe stato solo sull’etichetta all’interno dei capi, funzionale unicamente al riconoscimento dei soggetti manifatturieri, ma invisibile all’esterno, lasciando gli spazi e le superfici a disposizione dell’unicità e libertà delle persone che li avrebbero indossati. Revolución!

Per quanto sembri inconcepibile allo stato attuale nel mondo dello sportswear, scrissi fingendo competenza e preparando la stoccata finale, si consideri per un istante i vestiti d’alta moda o solo anche quelli da cerimonia - completo e cravatta per intendersi - dove prevale il taglio e la qualità del tessuto a rendere appetibile un marchio, non l’esibizione dello stesso. Se il problema sono le vendite, caro Yvon – proseguii – si pensi a come far passare al consumatore l’idea che nessuno lo sta sfruttando, che egli non è un cartellone pubblicitario vivente suo malgrado, e magari il tutto potrebbe risultare perfino cool, ossia fico. Forse, come nel mio percorso, anche quelli a cui piace l’esibizione del logo potrebbero riconsiderare la faccenda, se ponderata con calma dalla cima di un torrione.

Il seme era così stato gettato. Ora è in silenziosa attesa nei campi, sotto la neve di gennaio. Potrebbe arrivare la gelata tardiva, oppure no.

Croda Rossa volti LT

Un amico ed io in classica, maschia e perciò patetica posa di vetta, Croda Rossa d’Ampezzo, 2014. Si notino gli storici capi in tessuto “pile” a cui sono state scucite le etichette, solitamente visibili sul petto. Il tutto risulta, a mio personale giudizio, gradevolmente vecchio stile e sobrio. (Nota esplicativa: i veri volti sono sostituiti da quelli di Spongebob e Stewie Griffin per rispetto della privacy e per assecondare l’ossessione, come da copione dei veri montanari ribelli, di restare nell’ombra).

 

Giurassico: il flashback.

Alla fine alcuni mesi fa mi è tornato in mente. Succede così, alle volte. I ricordi sono nelle pieghe della mente e ogni tanto riaffiorano. Sono sequenze di molecole, in fondo, e qualcosa di endogeno ogni tanto li innesca senza che ci sia dato di sapere il perché.

Era il 1989, i miei genitori mi avevano appena comprato una biciclettina nuova di stecca, come si dice. E io sono lì, con il cespo di capelli neri che allora avevo, bambino con la riga in parte molto demodé, ad armeggiare in garage con il gioiello appena acquistato. Una bici di quelle di una volta, con i parafanghi in acciaio inox, quattro rapporti e la saldobrasatura nella scatola di congiunzione, roba buona insomma. Chissà cosa pensai, chissà cosa vidi. Nessuno in compenso vide me: ad uno a uno staccai tutti gli adesivi presenti, i loghi e i marchi, in maniera orrenda e sgraziata. La colla rimaneva attaccata a piccoli lembi, tentai di rimediare con la punta di un chiodo e una spatola e il risultato fu ovviamente una sciagura. La bicicletta nuova e subito sfregiata fu presto scoperta, e io giustamente sgridato.

Allora non c’era ancora nessuna montagna, non c’erano letture, non c’erano hippy o saggi a indicare la via. Era, in nuce, un’intuizione di un bambino, una pulsione recondita pescata da qualche parte, un microscopico gesto ribelle contro, forse, un’omologazione. Chissà se è vero, e chissà se non stia caricando troppo di significato quell’episodio. So solo che quel pomeriggio andò così.

Oggi, la bicicletta è finita chissà dove, temo venduta. La vecchia giacca è appesa a una gruccia, sostituita da una più moderna, verde anch’essa, stavolta con la membrana più performante, quella originale. Di quest’ultima sono riuscito a scucire il logo senza danni. Gli amici che mi prendevano in giro per l’onnipresente giacca verde bonariamente continuano a prendermi in giro per i miei abiti pitturati con i pennarelli indelebili o dalle etichette staccate – non tutti, che non voglio farne un’ossessione – così come per i mille tic, debolezze, goffaggini che ho e che tutti abbiamo. Io, di rimando, sorrido e prendo in giro loro, che è il modo più efficace che ho per volergli bene.

Non so come evolverà la faccenda ma, loghi o no, senza prendersi troppo sul serio, alla fine per me l’importante sarà percorrere il più a lungo possibile il sempiterno costone delle Agnelèzze, ancora per tanti anni, e vedere dove finirà con quel salto dirupato che ancora non ho visto.

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Crediti per l’ispirazione: Afrà de Roma e Candido.

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Federico Balzan

La montagna senza la morte

La montagna senza la morte

 

Montagna senza morte1

|  ore 16.14; condensa alle finestre  |

 

«Nube lenticolare!»

Aljaž lancia le sue parole con un grido nella chiara aria settembrina.

Dall’altro capo della corda rossa, più su, mezzo sbilenco nel camino di roccia dove sto cercando di issarmi sbuffando, dedico una parte del mio cervello a decodificare il suo tono, per capire se si tratti di allarme, o stupore, o altro. Poi, arrendendomi, chiedo seccato maggiori lumi al mio compagno.

«E quindi?» sbraito verso il basso.

«Porta temporale, vediamo di sbrigarci» risponde asciutto.

Incasso la sua superiorità in fatto di meteorologia e proseguo mirando con l’occhio al canalone Findenegg, sotto il quale c’è la cengia della salvezza. La corda si consuma allontanandosi dall’ombelico della sosta, un friend traballante pochi metri sotto a dare l’illusione della sicurezza.

Tasto con i polpastrelli il calcare vecchissimo, toccando con voluttà la mia amante domenicale. Posiziono le dita e faccio affidamento sulla roccia, sento il ruvido che gratta la mia pelle. Ogni appoggio dei miei piedi sono migliaia d’anni di sedimenti stratificati, preparati con pazienza affinché io potessi goderne.

In alto troneggia il Montasio, ammantato, appunto, in una regale ed elegante nube lenticolare. Attende.

Il mio amico lo chiama Montaž, ché questa è terra bilingue di confine. Un italiano e uno sloveno in questo momento si dividono le emozioni sulla grande montagna.

 

Una precedenza mancata, una reazione scomposta, una striscia di gomma bruciata, poi il buio. Sulla piccola strada comunale di campagna, riversa sull’asfalto, una motocicletta è aggrovigliata sotto un fuoristrada. Ancora più sotto, Aljaž. Immobile.

Attorno a lui, per alcuni interminabili secondi, solo il lento movimento del sommacco dondolato dal vento e il sommesso ronzare degli insetti, come sempre indifferenti a tutto.

Poi il conducente del fuoristrada, illeso, si scuote dallo sgomento. Ed è un turbine di ambulanze, corse all’ospedale, notizie che si susseguono.

Quando tutti vanno via, una scarpa rimane sul ciglio della strada, nessuno l’ha notata.

 

Montagna senza morte2

|  ore 16.19; strette corsie  |

 

«Molla tutto! Recupero!»

Saliamo in fretta, le difficoltà diminuiscono. Sbircio in basso il rassicurante e verde altopiano del Montasio, che è pronto ad accoglierci in grembo quando, come tutti gli alpinisti, come tutti nella vita, torneremo giù.

Guardo Aljaž che sale tra il tintinnio della ferraglia recuperata disordinatamente, un sorriso quando mi raggiunge in sosta. Siamo assieme su una montagna, perfetti e fortunati nei nostri trent’anni. Due donne giovani, intelligenti e splendide sono a casa ad aspettarci.

«Dov’è il tuo temporale?» butto lì, beffardo, al mio compagno. Dalla nostra posizione, l’azzurro sembra aver ripreso vigore e spazzato i nembi che si avviluppavano alle creste aggettanti.

«Nel 1986 un anafronte al Cervino ha fatto abbassare la temperatura di quindici gradi in mezz’ora» ribatte, enciclopedico e colto.

Butto l’occhio in giro, svagato, tra i vecchissimi pilastri chiari della montagna.

«Certo che queste crode sembrano le mie Dolomiti, no?» svicolo.

«…seguito da un temporale devastante. E comunque le Giulie sono più belle» aggiunge e punzecchia.

Riprendiamo a salire, siamo calmi e sornioni. Ancora un po’ di sfasciumi e usciremo dalla via. La vetta è lì, ancora pochi metri e ci sarà il solito rituale: l’abbraccio, la firma, il materiale da dividere, la fotografia di due sorrisi ebeti ma sinceri.

 

Una stanza di ospedale in città, lui che è in coma da ormai due mesi. Mi avvicino, inadeguato, a macchinari con piccole luci e tubicini, tra tenui bip che non so interpretare. Chiudo gli occhi e mi aggrappo a ciò che ho portato con me, una speranza: la possibilità che lui si possa risvegliare anche grazie alle emozioni forti, alla musica, a un racconto.

E allora guardo il mio amico su quel letto, disteso all’insù, immobile, a parte un lieve respiro, come un pino mugo al sole, con un leggero vento a scuoterlo. È bello come un satiro, con quei capelli biondi. Da qui gli spigoli delle Alpi Giulie sono lontani un milione di chilometri.

Infine con voce rotta, sgraziata, attacco per lui il racconto di un’avventura che non abbiamo ancora vissuto. Ma che si farà, presto o tardi.

Forse l’anno prossimo, forse quello dopo. Forse quando saremo quarantenni. Però ci sarà un settembre dall’aria frizzante e tutto quello che ho immaginato inizierà così, ascoltami bene Aljaž, che adesso inizio.

«Nube lenticolare!»…

 

Montagna senza morte3

|  ore 16.30; termine orario visite  |

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Federico Balzan

 

N E X U S, P L E X U S, S E X U S

N E X U S,  P L E X U S,  S E X U S

Impressioni dall’IMS International Mountain Summit di Bressanone - Brixen (I), 16 - 21 ottobre 2014.

Copertina definitiva

 

I N T R O D U Z I O N E

0 di 3 | Il percorso della corda appoggiata alla parete

Il guaio delle citazioni è che poi bisogna mantenersi al loro livello. Per questo è molto più comodo, da pigri, fuggire i riferimenti e limitarsi a rielaborarli per farsi belli di qualche idea altrui. Tanto, tutto quello su cui si può discutere e su cui vale la pena discutere l’hanno già detto gli Autori classici, in un certo senso non si può più prescindere da certi archetipi letterari. Tutti i viaggiatori vengono dopo Ulisse, tutti gli amanti drammatici dopo Romeo e Giulietta, tutti i mutamenti senza contenuto dopo Il Gattopardo e così via.

Negli anni cinquanta Henry Miller prese se stesso e, attraverso un percorso di illuminazione spirituale, giunse alla scoperta del sesso, dell’arte, della conoscenza, per trasformarsi da uomo-ingranaggio della società industriale a uomo libero. Questo personale percorso diventerà la trilogia Sexus, Plexus e Nexus.

Lasciamo l’uomo nella sua introspezione, e andiamo all’uomo in rapporto con le montagne. Invertiamo la prospettiva. Qui, altri tre grandi temi – la dipendenza, la paura,  l’autoreferenza – toccano il mondo delle altitudini e dell’alpinismo. Interrogarsi su di essi vuol dire mettersi alla ricerca, come in fondo si prova, in parte, a fare qui all’IMS di Bressanone - Brixen. Senza troppe pretese, che ci sarebbero un milione di altri temi da affrontare e, forse, l’illuminazione resta molto lontana. Ma si può portare a casa l’illusione di aver fatto un passo in più verso una maggiore consapevolezza.

MetalpinistiRED Light

Metafoto di alpinisti di cartone all’IMS.


N E X U S

1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo

Il dottor Guido Giardini è un medico specialista in neurologia con particolare interesse nel campo dell'ictus e della cefalea. Esperto in medicina di montagna, è responsabile dell’ambulatorio di medicina di montagna presso l’ospedale di Aosta ed è Presidente in carica della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM). Ospite all’IMS, è intervenuto nell’ambito dell’appuntamento Clean and honest mountaineering: reality or illusion? dedicato al doping nello sport d’alta quota e negli sport popolari, presentando i risultati del monitoraggio di alcuni atleti al Tor des Géants, un ultra trail che si svolge in Val d’Aosta e che prevede ben 330 km di sviluppo e 24.000 metri di dislivello positivo. Lo incontriamo a margine dell’intervento. Ecco le sue risposte ai nostri spunti.

 

1 | PRIMO TEMA

Dottor Giardini, vorrei approfondire con lei un tema che vorrebbe sondare anche il ruolo antropologico e sociale dell’attività fisica di resistenza e ultra resistenza in montagna. In quale modo si possono collocare queste attività sapendo che gli sforzi prolungati, la prestazione di durata ecc. generano endorfine nel nostro cervello? Ci stiamo in qualche modo facendo condizionare dalle droghe endogene? Ha in sé qualcosa di patologico l’accettazione e il compimento di tali sfide? Riempie un vuoto?

Non è una domanda semplice: sicuramente alcuni studi hanno dimostrato che quando una persona inizia, per svariati motivi, c’è poi una fase di ricerca proattiva del gesto della corsa, e che questo sarebbe dovuto anche alla produzione di endorfine; si tratta, ad essere precisi, di droghe non in senso stretto, o per lo meno non nell’accezione immediata e diffusa del termine. Le endorfine sono disponibili nel nostro corpo grazie alla selezione naturale ed hanno un preciso ruolo biologico. La funzione è far sentire il benessere e non fare sentire lo stress in determinate situazioni. Però, in qualche modo, in effetti, agiscono quasi come sostanze stupefacenti che inducono di conseguenza, come è ovvio, una ricerca del benessere e di perpetuazione dello stesso. Una dinamica simile ad una dipendenza, dunque. Pertanto c’è sicuramente una base neurobiologica nella ricerca della corsa sulle lunghe e lunghissime distanze. Questa però in genere viene dopo la motivazione iniziale della persona.

E cosa spinge le persone ad iniziare?

Nel nostro centro di medicina di montagna, ad Aosta, visitiamo persone che vanno in montagna per sport, per lavoro, per semplice passione. Ho notato, in questo caso, che i trail runner sono una categoria piuttosto particolare. Non voglio generalizzare, né dare giudizi, ma ho osservato una tendenza: complice il fatto che si tratta di uno sport facilmente avvicinabile (non serve molta attrezzatura e molti ambienti si prestano alla sua pratica), molti si avvicinano a questa attività dopo un evento di “frattura psicologica” nella vita. Può essere una separazione, un lutto, un’insoddisfazione al lavoro eccetera. Credo sia un modo per riappropriarsi di se stessi, del proprio corpo, trascurato forse dalla sedentarietà della vita o dal tempo dedicato ad altre persone. A volte però si crea una sorta di eccesso, quasi una parodia di liberazione. Da quel che mi è concesso di vedere nel mio lavoro, credo che il trail runner sia un po’ più a rischio di altri sportivi della montagna, sia per il maggior numero di praticanti sia, forse, per quella che mi sembra di intuire come una maggiore predisposizione a questa dipendenza, che individuo in questa categoria.

Volendo approfondire, vorrei dire che, lavorando sul campo e ascoltando queste persone, noto in alcuni una sorta di personalità che tende alla dipendenza, all’abuso. Infatti quando una persona diventa dipendente, c’è già una personalità alle spalle che lo porta alla dipendenza, ad esempio per l’utilizzo di farmaci o altro. Vi sono persone che, quando impossibilitate all’attività fisica (infortunio, brutto tempo eccetera), sembra quasi che stiano male. Anch’io faccio attività fisica, certo non estrema; ebbene, talvolta sono quasi sollevato che, ad esempio, il maltempo mi impedisca di uscire a fare dello sport in montagna. È il momento in cui penso «Farò dell’altro!» Invece per alcuni trail runner questo pensiero diventa difficile da tollerare. Ogni tanto mi sorprendo nel percepire nei miei pazienti quasi il dovere alla montagna.

[Il dottor Giardini dice questo e a me, frattanto, viene in mente Luca Beltrame, scivolato, pare, senza un lamento giù da una vetta delle Alpi Giulie un anno e mezzo fa, un tragico incidente, lui con quel taglio delle palpebre sugli occhi che rendeva la sua espressione così triste, lui che scriveva sulle riviste sezionali del CAI di salite di II, III, IV grado con splendida autoironia, delle prese in giro con gli amici, di risate ed avventure sulle Alpi orientali, di scalate tragicomiche, dei suoi bislacchi compagni di cordata, di alpinismo solare e normale insomma. E dopo decine di articoli con questo taglio beffardo e intelligente, se ne uscì con la narrazione della “diretta Kugy” sulla parete nord dello Jôf di Montasio, un pezzo stupendo che mi raggelò: nessuno spazio per ironia e gioia di vivere, solo la descrizione di una salita che sembrava quasi una pena a cui non ci si può sottrarre, un obbligo infernale, il sogno di qualcun altro nel quale ci ritroviamo improvvisamente, e di malavoglia, protagonisti. Chiudeva così Beltrame, spossato sulla panca del rifugio Fratelli Grego, dopo undici ore di fatiche: “Quando alzo gli occhi verso la grande parete nord, qualcuno mi fa notare che sono molto rossi. «Ah sì?» Traccio linee immaginarie su rocce scure. Dal ghiacciaio raggiungo nuovamente la vetta. Sono felice?”. Quante volte, anche per me, andare in montagna è fuggire da qualcos’altro, riempire un vuoto, forzare?]

E la componente di rischio ulteriore che hanno gli alpinisti? Come si inserisce questo aspetto, per nulla banale, della concreta prospettiva di perdere la vita? Non è paradossale cercare un senso alla propria vita rischiandola, dunque in qualche modo riducendone il valore?

Anche questa dinamica ha una valenza antropologica, psicologica e vorrei dire anche psicoanalitica, visto che per primo Freud parlò di amore e morte, Eros e Thanatos. Si tratta di un meccanismo di base del funzionamento della psiche per molti tratti di personalità. Anche questo, in ultima analisi, credo sia un modo di approfondire la conoscenza di se stessi e confrontarsi con il proprio limite o la propria “limitatezza”. Senza giudizio morale, o di valore. Credo però sia così.

Giardini

Il dottor Guido Giardini durante l’intervista, fotografato con il peccio sullo sfondo. In un momento di insubordinazione di entrambi, abbiamo preferito quest’ultimo al consueto fondale con gli sponsor.

 

2 | SECONDO TEMA

Ho notato negli ultimi dieci anni una proliferazione di gare di resistenza estreme, le cosiddette ultra trail, sulle nostre montagne. Mi pare inoltre che si sia innescata una sorta di battaglia commerciale nella loro promozione che punta a vendere numeri sempre più alti, enfatizzando le gare con lunghezza e dislivello maggiori. Visto che, spesso, l’organizzazione di queste corse è affidata ad associazioni dilettantistiche, lei ritiene che il mondo che lei rappresenta, quello della comunità scientifica dei medici, possa o debba cercare di intervenire per dare un indirizzo, mettere in guardia gli atleti sui rischi, formare in generale il mondo delle corse in montagna?

Sì, è vero che c’è una corsa alla gara più lunga, alla ricerca degli sponsor, ad aumentare il numero degli iscritti. Questa dinamica è stata così rapida che il diritto e la scienza fanno fatica a stare al passo. Però mi sento di dire che quello che abbiamo fatto prima studiando l’Ultra Trail del Monte Bianco e poi il Tor des Géants va proprio nel senso della formazione, avendo sempre come primo obiettivo la sicurezza dell’atleta. Inoltre credo che la ricerca che viene svolta in questi campi debba essere necessariamente non profit e non accettare sponsor commerciali. Se possibile, gli studi dovrebbero essere indirizzati anche a sfatare alcuni luoghi comuni o opinioni diffuse: ad esempio, in generale si pensa che il Tor des Géants sia più critico dell’UTMB semplicemente per il fatto di essere più lungo. In realtà, è vero per alcune cose, mentre per altre no. I primi dati delle ricerche dimostrano che alcuni danni muscolari e scheletrici non siano così ovvi, forse per una velocità minore media nella percorrenza. In ogni caso, bisogna sempre distinguere tra atleti di punta, intermedi e atleti “delle retrovie”: i rischi sono molto diversi, e vanno dai traumi alle allucinazioni, dalle banali vesciche fino a vere e proprie lesioni da decubito, come quelle dovute allo sfregamento continuo dello zaino sul dorso.

[Ascolto queste parole, e ricordo due amici che mi punzecchiano con le loro visioni: il primo mi ha detto, tempo fa, dopo aver terminato a fatica un ultra trail, che la corsa è vigore, gesto, aria in faccia, danza, estetica. E trascinarsi per decine di km diventa la negazione di queste sensazioni. Il secondo mi ha detto che a ciascuno va il suo assurdo, che tra mandare in malora le proprie ginocchia e mandare in malora il mondo con le nostre abitudini consumistiche non c’è poi così tanta differenza, basta non scambiare le patologie per eroismi.]

 

3 | TERZO TEMA

Questi sono alcuni dei suoi campi di ricerca attuali. Quali sono però le sue visioni? Sul tema, di cosa intende occuparsi in futuro?

Recentemente abbiamo fatto un passo importante: a livello di Regione autonoma della Val d’Aosta abbiamo fatto riconoscere la visita di medicina di montagna come LEA (Livello Essenziale di Assistenza) e assegnando ad essa un codice ben preciso. Questo significa che in Val d’Aosta un paziente può venire da me o dai miei colleghi con l’impegnativa del medico di medicina generale per una visita di medicina di montagna. Questo ci consente di fare prevenzione sui rischi specifici dell’alta e media montagna. Faccio degli esempi: a questa visita possono sottoporsi un alpinista che ha avuto un edema polmonare a 8.000 metri e vuole ovviamente evitarne un secondo, un maestro di sci che ha avuto un infarto e vuol sapere se potrà ancora svolgere la sua attività professionale a 3.000 metri, una donna incinta che gestisce un rifugio a 2.700 metri e vuol sapere se potrà affrontare la stagione estiva di lavoro e così via. Come Presidente della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM) sto lavorando, con altri colleghi, per coinvolgere altre Regioni a statuto speciale per estendere questa iniziativa. Creato il precedente, penso sia più facile infine, attraverso la conferenza Stato-Regioni, l’estensione anche alle Regioni a statuto ordinario. Altre iniziative per il futuro saranno sempre lavorare sui tre assi fondamentali: l’attività clinica e l’assistenza, la ricerca clinica applicata, la formazione medica e l’informazione a chi non è medico.

Dottor Giardini, grazie del suo tempo e grazie per aver condiviso con noi i suoi pensieri. Buona giornata e arrivederci.

Prego, buona giornata a voi.

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Indice puntate

INTRODUZIONE | 0 di 3 | Il percorso della corda appoggiata alla parete

NEXUS | 1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo

PLEXUS | 2 di 3 | Paura | Dave MacLeod, alpinista poliedrico

SEXUS | 3 di 3 | Autoreferenza | Gli incontrati, dentro e fuori

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Crediti

La riflessione sugli archetipi letterari è sviluppata da uno spunto di Gaia Baracetti, nel libro Che male c’è.

La visione della corsa come gesto di leggiadria è del mio amico Angelo, conversazione privata.

L’espressione Ad ognuno il suo assurdo e la riflessione ad essa sottesa è del mio amico Paolo, conversazione privata.

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Federico Balzan

Plexus | La paura. Dave MacLeod, alpinista poliedrico

P L E X U S

2 di 3 | Paura | Dave MacLeod, alpinista poliedrico

ATTESA – WHEN | WHO | WHERE | FEAR

Aspetto Dave MacLeod seduto sul divanetto della sala interviste all’IMS di Bressanone - Brixen. Mi preoccupo moderatamente per non aver ancora stabilito con certezza come si pronunci il suo cognome. Meclàud, Meclìod, Meclèod? Gli interpellati all’IMS danno pareri discordanti e nessun video su youtube mi aiuta: tutti gli intervistatori lo chiamano semplicemente Dave o non lo chiamano affatto, e così farò anch’io. Do un’occhiata alla sua galleria di immagini e penso che il suo volto lungo e allampanato mi ricorda i moai dell’isola di Pasqua; non mi arrischierò però ad alcun tipo di battuta o di allusione, che non conoscendo il personaggio e il suo spirito autoironico mi frena il pensiero del suo bicipite da E11 a pareggiare un eventuale mio sgarbo.

Attendo e ancora non so quando e se arriverà, fuori un meraviglioso sole d’ottobre invade la valle.

Chainsaw double

Una fotografia di Dave che mi ha fatto desistere dall’idea di affrontare l’intervista con toni canzonatori o ironici. Da www.davemacleod.blogspot.com, rielaborata.

CHI È COSTUI

Dave MacLeod è un alpinista scozzese nato il 17 luglio 1978. Essendo io quasi suo coetaneo, è dunque un giovanissimo nel pieno dell’adolescenza. È diventato famoso, al mondo e a me che ricordo la relativa notizia nella rivista Alp di allora, quando salì, ancora capellone,  la via Rhapsody in stile trad. Era l’aprile 2006 e venne annunciata come la prima via con un grado di E11; pare che all’epoca fosse la più difficile via di arrampicata tradizionale al mondo e che fosse la prima a superare la mitica barriera, anche psicologica, del grado E10.

Per chi volesse approfondire la British Trad Grade, ossia la scala con E-qualcosa, rimando a questo contenuto. È meravigliosa la distinzione tra well-protected routes e bold routes. In pratica il tutto dipende dai centimetri di pelo sullo stomaco che si hanno.

Dave è noto per essere uno dei migliori all-round climber al mondo, il che significa, in soldoni, che è forte in tutte le discipline. E ora sotto con le domande.

Dave trad double

Uno splendido Dave con alcuni strumenti di lavoro trad. Ci sono al mondo certi friend di cui ignoravo l’esistenza di quelli inferiori di quattro misure. Dal sito commerciale www.mountain-equipment.co.uk, rielaborata

SI COMINCIA

Ciao Dave, sono Federico, abito nelle Dolomiti, fra dieci minuti andiamo a berci una birra. In questa intervista vorrei parlare non solo di gradi e prestazioni atletiche, ma anche della tua visione (come uomo ed alpinista) del mondo della montagna e del mondo in generale. Ho quattro domande per te.

Cominciamo con un gioco. Io ti sottoporrò alcune citazioni pronunciate da uomini di montagna, delle quali vorrei che tu provassi a indovinare l’anno, l’autore, il Paese di provenienza. Quando, chi, dove? In qualche modo vorrei capire se ci sono epoche, uomini e regioni che hanno maggiormente contribuito all'idea che abbiamo del mondo dell’alpinismo e dell’arrampicata oggi. Il gioco si chiama “L’ha detto lui”. Sei pronto?

Mmmmh.

Questo è lo spirito giusto! Iniziamo!

L’HA DETTO LUI

1 | Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità.

2 | Se volevo applausi facevo un altro sport.

3 | Senza dubbio le cifre romane che definiscono i gradi di difficoltà sono una prestazione sportiva, tuttavia essi non dovrebbero in nessun caso diventare la misura di tutte le cose nell'arrampicata. Molto più importante e significativo è lo stile con cui un grado di difficoltà viene superato.

4 | Se c’era bisogno di artificiale la facevo… ero bravo in libera, ma anche in artificiale non ero poi così male. Ogni tanto ho piantato qualche chiodo dove non era forse così necessario. Nella salita vedo un po’ il senso generale, e complessivamente considero importante tornare a casa e bere un bicchiere di vino con gli amici; il mio era alpinismo “calmo”, anche se ho superato grandi difficoltà, anche se non sono mai sceso da una via. Del resto, al ristorante prendo sempre il menù completo!

5 | Non portavo con me materiale da bivacco, perché altrimenti l’avrei usato sicuramente.

6 | Lìghete mejo e fa’ da novo chel gròp, che se te porte a casa co i piè par davanti tò mare, che sarìe me sorèla, la me copa. [Assicurati meglio e rifai quel nodo, che se non ti riporto a casa vivo tua mamma, che sarebbe mia sorella, mi ammazza.]

SECONDO DAVE…

Per motivi tecnici, le risposte di Dave saranno rivelate in un futuro remoto, a mo’ di quarto segreto di Fatima. Il lettore, se lo vorrà, potrà cimentarsi nel gioco senza sbirciare le risposte poco sotto. Forza!

1   | …

2   | …

3   | …

4  | …

5   | …

6 | …

…E INVECE

1 | 1905, Paul Preuß, Austria  2 | 1978, Ernesto Lomasti, Italia  3 | 1989, Wolfgang Güllich, Germania  4 | 2003, parlando degli anni ’60, George Livanos, Francia  5 | 1960, Tom Patey, Scozia  6 | 1997, mio zio, Italia

Alpinisti WWW

Where were you when I was helpless?

1 | PRIMA DOMANDA

Ok, Dave. Sulla base dell’incoraggiante risultato ottenuto, pensi che si possano identificare, nella storia dell’alpinismo, epoche o luoghi che sono stati salienti per lo sviluppo del concetto che abbiamo ora dell’andare in montagna e del mondo dell’arrampicata? Oppure i dibattiti e i progressi sono dovuti ad alcuni uomini-faro, carismatici nelle loro visioni e nei lori indirizzi rivolti alla comunità alpinistica? E cosa ne pensi della massa di alpinisti della domenica, dei dilettanti? (Per questo c’era l’esempio di mio zio, un semplice appassionato concentrato sull’aspetto della sicurezza per il nipote!) Pensi che anche la massa determini e influenzi il modo che abbiamo di intendere l’andare per monti, indipendentemente dai big?

Penso che i movimenti e le correnti di pensiero in arrampicata provengano sia dalla massa di dilettanti, sia dal singolo o da una ristretta cerchia di individui. Ci sono scalatori singoli che combinano la capacità tecnica e mentale di aprire vie iconiche con quella di comunicare e scrivere molto bene: costoro risultano ovviamente e logicamente molto influenti. Questo accade anche in altre discipline dello sport, dell'arte, della scienza ecc. Tuttavia, penso che sia importante che tutti gli scalatori, dilettanti e professionisti,  pensino e si interroghino circa la loro influenza sui loro compagni di scalata e, in generale, sull’ambiente della montagna. L’obiettivo è evidentemente quello di portare avanti un influsso positivo, propositivo, rispettoso. Ciascuno di noi può contribuire!

2 | SECONDA DOMANDA

Sullo stile di salita. In Scozia il trad climbing è ampiamente praticato, rispettato, divulgato. Pensi che il numero tutto sommato limitato di pareti presenti nel tuo Paese possa in qualche modo aver contribuito a far nascere e sviluppare questa forma di rispetto? Diversamente, sulle Alpi, l’enormità di pareti a disposizione può aver contribuito a rendere meno diffuso l’approccio trad e clean perché il terreno di gioco è molto maggiore? A livello generale, è possibile che l’umanità (!) sia condannata a sprecare le risorse quando ne ha a disposizione, e invece tenda ad una maggiore oculatezza nella scarsità e nella privazione?

Sei mai stato ad arrampicare in Scozia? Abbiamo una varietà di tipi di arrampicata e abbondanza di salite e pareti maggiore rispetto alla maggior parte degli altri Paesi.

[Ecco, è stato un azzardo. Sì, Dave, in Scozia ho anche avuto la fortuna di andarci, ma a fare uno di quei vostri meravigliosi trekking in dieci giorni con lo zaino stracarico, attraversando brughiere accompagnato dal canto del chiurlo, e sul Ben Nevis ci sono salito soltanto dal versante addomesticato, risentendo peraltro i postumi dei festeggiamenti a Fort William della sera precedente. Già: in effetti, le pareti ci sono anche lì. È che io in Scozia appoggiavo gli scarponi sull’erba].

Forse questi siti non sono così facilmente accessibili come le falesie della Spagna o della Francia, dal momento che stiamo parlando per lo più di scogliere sul mare e pareti di montagna, piuttosto che vie accessibili lungo i fianchi delle valli… ma ci sono! Non credo pertanto che la nostra etica trad sia legata all'abbondanza o alla scarsità della roccia. Può essere piuttosto legata alla nostra varietà di roccia. Il tipo di roccia sulle Alpi limita lo stile trad dal momento che molti siti sono di  calcare e di qualità relativamente scarsa, dal punto di vista dell’arrampicata. In Scozia, invece, la roccia è adatta ad essere protetta con attrezzi trad, soprattutto per la presenza di fessure. Inoltre, l’arrampicata in Scozia è sempre stata un'attività marginale, riservata a pochi, e così è stato più facile far sì che si diffondesse un’etica con meno compromessi, che noi definiamo bold. Intendo dire che c’è meno spinta, richiesta, dibattito per rendere l’arrampicata uno sport accessibile a tutti i costi, comodo, con le protezioni fisse a prova di bomba.

3 | TERZA DOMANDA

Ed ora con Dave parliamo della sua nuova via, o meglio dell’importante variante, alla parete Nord della Cima Ovest delle Tre Cime di Lavaredo. Certo, quella coi tetti. Dave ha salito in libera i primi 100 metri della via Bauer poi, anziché piegare a sinistra, è salito dritto su terreno nuovo – questi i 130m di variante, chiamata Project fear - raggiungendo il famoso gigantesco tetto. Quindi si è congiunto al tiro chiave della via Pan Aroma,per poi raggiungere la cima lungo la via Cassin. Il nome che hai dato a questa variante, Project fear, si riferisce al nome in chiave parodistica dato alla campagna dei sostenitori del no nei mesi precedenti al referendum sull'indipendenza della Scozia (il vero nome della campagna dei sostenitori del no è stato Better Together).

Dave, da quest’estate c’è una nuova via scozzese alle Tre Cime di Lavaredo. Innanzitutto, congratulazioni! Come certamente saprai, le Tre Cime sono una montagna iconica, una montagna di confine. Anche qui, dall’una e dall’altra parte, vi sono talvolta movimenti di indipendenza, di ribellione, di affrancamento. Al di là delle considerazioni politiche più profonde, impossibili da sviluppare qui, in che modo pensi che la paura influenzi, condizioni e caratterizzi le scelte delle persone? Intendo, nella vita e nell’alpinismo. Alle volte ho come l’impressione che quando desideriamo una cosa nel momento in cui stiamo per raggiungerla ci tiriamo indietro.

Sì, conosco il tema delle spinte di indipendenza nella parte di lingua tedesca d'Italia, e viceversa. In merito a ciò, penso che sia incontrovertibile dire che le persone tendono ad essere più inclini alla paura che alla ricerca di nuove possibilità e che trovino più facile vedere i problemi piuttosto che i potenziali benefici delle nuove idee. Questo riguarda sia una salita in montagna sia, appunto, l’affrontare tutte le conseguenze, anche complesse, di un’iniziale volontà di indipendenza. A volte questo approccio di paura ci porta a preferire il male che conosciamo, piuttosto che il male che non conosciamo, come dice anche un nostro proverbio (letteralmente Sometimes it can lead us to favour the devil we know rather than the devil we don’t N.d.A.).

Il mondo di arrampicata è uno spaccato di una concentrazione di persone, comunque una minoranza, che tendono a seguire le opportunità ed hanno meno probabilità di permettere ai rischi di dominare la loro vita e le loro decisioni, poiché li sperimentano in parete e si abituano a gestirli. Non è snobismo o elitarismo, siamo così! Invece sulle masse il discorso è diverso: il nostro referendum in Scozia è stato, tra l’altro,  un interessante esperimento su molti aspetti del comportamento umano. Per me è stato molto sorprendente vedere l’effetto che hanno avuto i mezzi di comunicazione nel descrivere i possibili effetti negativi di una scelta di indipendenza, andando di fatto a spostare l’esito. E la leva è stata proprio la paura.

[Per conoscere meglio il pensiero di Dave sul tema, rimando al post dedicato sul suo blog. Di seguito un anticipo di una sua amara riflessione, in cui si cita quella paura che è stata un po’ il filo conduttore di questa intervista].

“What country voluntarily votes to hand over its own independence? Mine did. Yesterday I felt completely empty and devastated by what happened in Scotland. It was a moment when you suddenly realize how easily the chance for something really special can be obscured by the fear of losing what we already have.

[…] So my lesson from this is that life is too short and shit not to be utterly fearless in grabbing the good opportunities that do come your way.”

Project fear

Dave affronta il tiro di 8c di Pan Aroma; la sua variante Project fear è ormai alle spalle, tracciata nella piovosa e riluttante estate dolomitica. Cima Ovest di Lavaredo. Foto: Matt Pycroft/Coldhouse Collective. Da www.davemacleod.blogspot.com

4 | QUARTA DOMANDA

Infine, ci racconti i tuoi progetti per il futuro? Dove porterai e spingerai il tuo stile di arrampicata?

Mi piacciono tutte le discipline di arrampicata, quindi sono continuamente attratto da ciascuna di esse, talvolta quasi combattuto. Quest'anno ad esempio ho trascorso più tempo sulle pareti nord, prima in Patagonia e poi, appunto, sulla Cima Ovest da voi. Però ora, ad esempio, mi mancano il bouldering e l’arrampicata di difficoltà. Quindi probabilmente durante il prossimo inverno e la prossima primavera cercherò di allenarmi nuovamente sulle piccole prese.

[Con sgomento penso a quelle che evidentemente per lui sono le “medie e grandi prese” di Project fear].

Molte grazie Dave, ti aspettiamo presto nuovamente sulle Dolomiti!

Grazie a voi, arrivederci!

[Poiché la trasparenza mi sembra doverosa, quel giorno non ci siamo incontrati di persona per una serie di sfortune rocambolesche; l’intervista è stata condotta successivamente grazie ai prodigi del web]

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Indice puntate

NEXUS | 1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo

PLEXUS | 2 di 3 | Paura | Dave MacLeod, alpinista poliedrico

SEXUS | 3 di 3 | Autoreferenza | Gli incontrati

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Crediti

-      La citazione di Paul Preuß è una delle sue Sei regole per lo scalatore.

-      La citazione di Ernesto Lomasti è ripresa da un articolo di Luca Beltrame.

-      La citazione di Wolfgang Güllich è tratta da L'arrampicata sportiva, Güllich e Kubin.

-      La frase di George Livanos, rielaborata, è ripresa da un’intervista di Vinicio Stefanello su Alp Grandi Montagne n° 23.

-      La frase di Tom Patey, rielaborata, è ripresa dal suo libro One Man's Mountains.

-      I primi piani degli alpinisti famosi, poi rielaborati, sono rubacchiati da vari siti web.

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Federico Balzan

S E X U S | Autoreferenza | Gli incontrati

S E X U S

3 di 3 | Autoreferenza | Gli incontrati

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Come muoiono lentamente le Alpi, ad est dove il sole nasce. (Kamniško-Savinjske Alpe, Slovenia)

 Le tre del mattino. Dov’è Bressanone? Questa piazza silenziosa e deserta su cui soffia una tenue brezza notturna – e che fra poche ora ruoterà, come da millenni, la sua direzione quando i primi raggi del sole colpiranno i costoni delle montagne lassù in alto – è ancora la splendida piazza del museo Diocesano, colma di luce e chiasso già dal mattino? O è forse un’altra, al rintocco cavernoso dei miei passi solitari, rilassati e stanchi? E queste migliaia di blocchetti di riolite posate a terra a raggiera, su cui pare di ascoltare il rumore dello scalpiccio delle persone, scomposte o ordinate, che in genere accolgono, sono davvero sempre le stesse? Avanzo e vedo spicchi di cielo nero tra i palazzi austeri, anch’essi sonnolenti. Le rughe dell’intonaco sono amplificate e rese drammatiche dalla luce di sbieco dei lampioni orientati verso il basso. Li sovrastano i fregi, perfettamente stuccati, ordinati, in ascolto. Lentamente percorro la via lungo il fiume che attraversa la città, fino ad arrivare alla confluenza tra Isarco e Rienza, posta in pieno centro; come viene scelto il nome da qui in poi se le portate dei due fiumi sono all’apparenza identiche? Perché Isarco? Il grande Danubio, Donau, potrebbe essere, in un altro universo, il fiume Brigach, nel suo lungo percorso tra le pianure fino al mar Nero? I nostri destini ne sarebbero influenzati?

I bow window di via Portici Maggiori hanno pesanti tende che però consentono ugualmente alla luce di entrare ed uscire dalle stanze. Ma quel che escono sono anche i pensieri delle centinaia di persone che lì dentro stanno dormendo; pensieri in tedesco o in italiano, lievi o tormentati, di ricordi o di speranze. Nella solitudine del sonno, ciascuno chiama qualcun altro, lo sogna, ripensa ai piccoli fatti della giornata, medita, rielabora, chiede ed ascolta. E i pensieri escono dai muri, dalle crepe, fluiscono con lentezza dai coppi antichi, si addensano sopra la città, e lì finalmente si incontrano, come una lanugine incerta e opalescente a mezza altezza, che a tratti sembra di vederla ma che poi no, non può essere. O forse sì? A ben ascoltare, si potrebbe udire un sommesso mormorio di richiami urgenti e segreti. Bressanone è brulicante anche di notte, soltanto poche decine di metri più su del normale, Bressanone è un continuo fluire, è un cielo pieno di trasmigrazioni di qua e di là della stretta valle, è il souk di Marrakech. E così sono tutte le città del mondo, dappertutto oltre i neri orli delle montagne che ora mi circondano nella notte.

Proprio qui, sulla piazzetta che volge in discesa dalle rive, poche ore fa ho incontrato un uomo che mi ha detto di chiamarsi Hervé e di essere, anche, un alpinista. Su quel muretto io mi sono appoggiato, oppure dovrei dire che mi appoggiai, tanto lontano e impossibile sembra quel momento, ora, con un gomito ad ascoltarlo, in splendido ozio e curiosità. E, siamo intesi, ho fatto finta intenzionalmente di non riconoscerlo, un po’ per gestire la mia vanità, un po’ per donargli quel lusso raro che hanno le persone famose nel non essere riconosciute, e poter così sperimentare la normalità. In realtà sapevo benissimo che è un forte alpinista, nel pieno degli anni, capace e influente poiché dotato di carisma e abilità nei rapporti umani.

Abbiamo iniziato a parlare di chiodi e di salite, e perfino io che sono un montanaro della domenica, incredibile, gli stavo dietro, almeno nel discorso. Lui mi ha chiesto più volte «Cosa ne pensi tu?» riguardo alla tal cosa e a quell’altra, e nel mentre si sporgeva verso di me in ascolto, in un gesto di reale interesse, una virtù rara. E avanti, per un’ora, o forse dieci, a fare riflessioni, prendere posizione, polemizzare, discutere di immaginario, di introspezioni, di gradi e di etica. Il nostro vociare ha radunato molte altre persone, e la conversazione a quel punto si è impennata, era vitale, era nostra. Di più: tutto quello era niente di meno che esatto, necessario, centrale, puro, progredente. Lassù, il grande orologio del campanile avanzava lentamente con piccoli crepitii che nessuno ha mai udito dalla piazza.

Più tardi, il sole ormai cominciava a calare, la luce era riflessa selettivamente nel suo spettro e tutto diventava rosso, ho incontrato uno di quei ciabattini di una volta, in una di quelle botteghe di una volta. Ecco che ci ripasso ora, ma era proprio questo vicolo nero? Un orizzonte di muri sbarra la fioca luce del lampione in fondo, e non sono più così sicuro. L’accesso se ne stava – incredibile – a livello della strada, una feritoia talmente in basso che ho dovuto chinarmi, e dell’omino spuntava fuori solo la testa. Ma ancora non bastava, e a quel punto ho deciso di coricarmi bocconi sul selciato, sporcandomi i pantaloni. E che non pensiate, a questo punto, che questa sia la solita sciocca metafora, che so, dell’uomo umile della strada, della voce di modestia alla quale non diamo mai ascolto, del baluardo contro la nostra autoreferenza. No no, l’omino e la bottega esistono eccome: camminate a Bressanone in una sera qualunque, ma meglio se di vento, e li troverete.

E anche il ciabattino aveva sentito parlare di chiodi e di salite, di coraggio e di illusioni. Ne aveva sentito parlare per aver interpretato, per così dire, le famose trasmigrazioni notturne sopra la città, la nube opalescente, dove dimorano, si capisce, anche i sogni notturni degli alpinisti. Ma, mi diceva, a un certo punto l’incedere dei pensieri a lui risultava sconnesso, che nel suo linguaggio i chiodi eran quelli per appendere i quadri o ribattere le suole, e le salite quelle per arrivare fino al maso del fratello, sopra il paese. È per questo, insisteva bonario e strizzando l'occhio, che la faccenda era senz’altro interessante, ma dopo un po’ tutta quell’interpretazione gli era venuta a noia, e con la noia era arrivata la stanchezza e infine il disinteresse per tutto.

Le tre del mattino, forse ormai le quattro. Dove va stabilito il confine tra due mondi apparentemente non comunicanti, tra giorno e notte? È forse quel fremito impercettibile dell’ontano sul greto alla prima avvisaglia di luce, è un profumo sceso dai fianchi della valle e che arriva di colpo alla piazza, è il primo volo della giornata del merlo acquaiolo? Oppure, ancora, il confine non c’è e i due mondi sono l’uno il compimento dell’altro, in un divenire circolare che si perpetua? Fra poco sarà l’alba, e io non potrò mai trattenere questo momento. Fluirà come tutti i momenti. Una promessa di luce, inizialmente ridicola e pretestuosa, pian piano riempirà il cielo, inesorabile. Poi tutto tornerà come prima, assurdamente reale. Fino a pochi istanti fa sembrava impossibile, e invece.

 

Indice puntate

NEXUS | 1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo

PLEXUS | 2 di 3 | Paura | Dave MacLeod, alpinista poliedrico

SEXUS | 3 di 3 | Autoreferenza | Gli incontrati

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Crediti

-        Se quanto scritto a qualcuno ricorda qualcosa è perché lo spunto e la traccia della narrazione provengono dal racconto Le tre del mattino di José Saramago contenuto in Di questo mondo e degli altri. Non è assolutamente copiato nelle parole o nelle frasi, ma la costruzione generale e lo sviluppo vorrebbero ad esso ispirarsi, per cui i due scritti potrebbero, chissà, risultare un po’ somiglianti.

-        L’idea di prendere qualcosa di già scritto e usarlo, dilatarlo, rielaborarlo l’ho vista espressa per la prima volta, e sperimentata, in alcuni scritti di Mario Crespan, su Intraisass. Trovo molto affascinante l’idea che non si debba essere originali per forza, ma talvolta si possa semplicemente rimaneggiare, rileggere o custodire quanto di buono è stato fatto da altri. Da qui, forse, possono aprirsi comunque nuove porte.

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Federico Balzan

Le precauzioni inutili

|  Le precauzioni inutili:

[1] Contro la nostalgia | Montagne di casa

1.1

| il senso del nonsenso |

E giù tutti a dire che le montagne dietro casa sono le più belle del mondo. Più della Patagonia, più dell'Himalaya, più delle Dolomiti famose. Alcuni lo pensano davvero in senso assoluto, altri fiutano il campanilismo ma il concetto non cambia. Perché?
Non c'è bisogno di scomodare la retorica: la montagna dietro casa non è madre, non stiamo tornando a cercarla. Inoltre, dèi e spiriti non c'entrano per niente. Cos'è, dunque?
Sulle montagne dietro casa, quelle più vicine, per forza dobbiamo aver iniziato qualcosa. Quando tutto era da scrivere, quando quella volta, con l'aprirsi di quello scorcio dietro la quinta di roccia, nulla è stato più come prima.
Ma allora, il nostro attaccamento non è altro che rabbiosa nostalgia della nostra infanzia che non tornerà mai più.

 

[2] Contro l'ambizione | Il senso da ricercare

1.2e

| sognando Paul Preuß |

«A qualunque ora ti sveglierai io, un'ora prima, sarò già sul ghiacciaio.»
Se sei in un rifugio la sera e scopri che c'è chi ti vuole soffiare il giorno dopo "la prima" su una linea in roccia individuata da te, che senti tua, questa è la sola risposta risolutiva che un uomo motivato può dare.
Ho letto questa frase in una qualche biografia di alpinista. L'ho sempre attribuita a Bonatti, ma adesso che ci penso forse è di Hermann Buhl, oppure di Gaston Rèbuffat. È passato tanto tempo, il libro era in prestito. Forse la citazione non è nemmeno giusta, forse nemmeno l'interpretazione lo è. Forse la frase è mia.
O forse è di ogni uomo al mondo che va sulle montagne con passione e incanto, di tutti quelli che si assumono rischi, anche se hanno famiglia, di quelli che si alzano alle tre del mattino per questa attività meravigliosamente inutile, ma altrettanto essenziale, per chi ne sente il richiamo.

 

[3] Contro la malattia | Chino dopo la china

1.3

| precipito |

Mi dice Alberto: fai sapere al mondo quel che fai in montagna, avventura piccola o grande che sia. Fai pure lo sbruffone, esagera sui gradi, enfatizza le difficoltà e le condizioni atmosferiche avverse. Accentua l'epicità delle tue sveglie alle cinque del mattino dopo esserti sbronzato fino alle quattro con gli amici o in compagnia di qualche ragazza bellissima. Racconta con spavalderia i rischi che assumi, di quelle valanghe che ti hanno sfiorato o ricoperto, di quei sassi che frullavano sopra la tua testa con quel maledetto, pauroso ed inconfondibile sibilo e che ti hanno sempre mancato. In bilico per milioni di anni, pronti a conficcarsi nella tua testa.
Insomma ridi sui tuoi vent'anni vigorosi, che in un momento, in un refolo di favonio, saranno già alle tue spalle. Impegni, cattivo tempo, pochi soldi, malanni e paure potrebbero improvvisamente toglierti quel che ora ti sembra dovuto. E saresti un povero diavolo che ha fatto l'umile per alimentare un personaggio umile, e non ti resterebbe nemmeno l'idea, l'illusione, di una vita spesa selvaggiamente.
Ma per non essere poi del tutto meschino in questo gioco di mistificazione, fermati qualche volta – una salita su dieci, almeno – e china la testa su quel mucchio di detriti su cui seduto.
E pensa a quei tremila metri di rocce sotto di te, strato dopo strato; e pensa che tu non sei né forte né abile per stare quassù, ma sei solo giusto. Giusto giusto per quassopra.
E infine ringrazia chi ti pare: la natura, un dio, il culo che hai avuto. Ma almeno pensaci un po' su.
Una foto ricordo sinceramente sorridente, una firma sul libro, i primi passi in discesa, qualche corda doppia lanciata nel vuoto. Ora ritorna giù, come sempre ti capiterà.

La meravigliosa espressione "Giusto giusto per quassopra" è dello scrittore Erri De Luca ne "Il contrario di uno".

 

[4] Contro la vecchiaia | Slongoi

1.4

| tracce |

In montagna, quando si è giovani ed allenati, si prendono gli "scurtoi", le scorciatoie, per far prima. Si tagliano i tornati sulla massima pendenza e si fila su dritti alla vetta, con quella meravigliosa sensazione di avere il tempo e le gambe dalla propria parte.
Ma senza aspettare di diventar vecchi, alle volte è bello anche prendere gli "slongoi" ed allungare e rallentare il proprio viaggio, perché tra il punto A e il punto B le cose più belle da vedere non sono sempre nella linea in mezzo.
Con le strade più tortuose ed illogiche, forse qualche meraviglia laggiù ci aspetta!

 

[5] Contro l'autorità | Al quarto non si comanda

1.5

| alle prese col paese |

Inizio anni '80, più di trent'anni fa. Don Martino è parroco nel paese di C. e ha da poco finito di dir Messa. È uno splendido mattino di giugno, il vento fresco scende dalle valli, pulisce l'aria e fa biancheggiare, rivoltandole, le foglie dei sorbi. Tutto attorno, la solita silenziosa corona di monti, da alcune settimane senza più traccia di neve.
Il prete si toglie i paramenti sacri, esce dalla canonica e attraversa a piedi la piazzetta soleggiata e deserta mirando all'osteria di fronte. Entra, saluta l'oste ed ordina il solito quarto di vino. Posa il breviario, poi con calma inizia ad aprire il giornale e, come sempre, prima che la lettura mattutina sia finita, i quartini diventeranno due, o tre. Cosa sarà mai questo piccolo vizio di fronte alla bontà e all'umiltà di questo pretino di montagna, amato dalla sua gente? I paesani, da sempre, ne ridono bonariamente.
Ma ecco che subito, nemmeno il tempo di essere servito, egli sente un rumore e, attraverso le consunte tende a quadri rossi e bianchi, scorge una grossa vettura in arrivo. Un presentimento. Dall'auto escono due persone. Diavolo, il Vescovo e il suo segretario! In visita, a quest'ora, proprio adesso!
Don Martino pianta lì tutto e si precipita all'esterno, con un crescente senso di colpa, facendo svolazzare la lunga tonaca nera, dimenticandosi pure il cappellaccio sulla cassapanca di legno. Il Vescovo intanto, dall'altra parte della piazza, l'ha visto e gli si fa lentamente incontro.
L'oste però, vuoi per ingenuità o vuoi per deliziosa cattiveria – più probabile quest'ultima, pensa Don Martino, cos'altro aspettarsi da quella canaglia? – esce a sua volta all'aperto e, piantati i piedi sulla ghiaia della soglia, con fiero cipiglio sbraita: «Reverendo, e il quarto?»
E Don Martino, fulmineo, si ferma e gli grida di rimando: «Onora il padre e la madre!»

 

[6] Contro la retorica | Vie senza civici

1.7

| anni '30 e anni '10, via Comici alla Torre Piccola di Falzarego |

Quel che oggi per noi è una via "plaisir", per Mary Varale (quel giorno con Comici e Del Torso) nel 1934 fu incognita, rigidi canaponi, tentativi e scarpette di feltro di dubbia aderenza.
Ma siccome il trio padroneggiava sicuramente quel grado, la conca di Cortina era verde e rassicurante in basso e, soprattutto, non per forza a quell'epoca la retorica eroica era d'obbligo così come talvolta ci viene raccontato e ci fa comodo credere, percorrere questa via oggi evoca l'immagine dei primi salitori appesi alla sosta, sul filo dello spigolo, così come noi tre ora, a prendersi in giro l'un l'altro, sghignazzare e riempirsi di buonumore, la vita normale lasciata per alcune ore a valle.
Un momento prezioso che è, assieme al godere del gesto della salita, il necessario completamento della filosofia "plaisir" in montagna.

 

[7] Contro la guerra | Le isole Diomede

1.6

| la creazione |

Le Diomede sono due isole in mezzo allo stretto di Bering: Russia a ovest, confine nel mezzo, USA ad est. Distano tre chilometri l'una dall'altra, ma sono divise da ventuno ore di differenza di fuso orario.
Si guardano da pochi passi, e proprio lì nel mezzo è passato per anni il confine ideologico della guerra fredda, due modi antitetici di vedere il mondo. Stati Uniti ed Unione Sovietica erano realtà lontanissime, soprattutto per chi, come noi, è abituato alla rappresentazione del planisfero con l'Europa in mezzo.
Erano e rimangono un posto strano, carico di simboli forti, il luogo dove sembrano fisicamente toccarsi gli antipodi di tutto.
Ma, a ben guardare, alle isole Diomede in fondo non ci sono altro che scogli battuti dal vento artico, pochi pescatori dalle mani spellate, balene in migrazione ed una natura forte e selvaggia.
Il cambio di data, la guerra fredda, l'oriente contro l'occidente... il resto, insomma, è cosa ininfluente, artefatto effimero creato dall'essere al mondo di noi uomini. Che passa e va.
Nulla, insomma, che possa interessare ad una procellaria posata su uno scoglio nel mare in tempesta.

 

L'elenco di "Precauzioni inutili" è liberamente ispirato all'omonima serie di racconti di Dino Buzzati.

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Federico Balzan

 

Il fallimento dei fotografi di montagna, di natura, di paesaggio

3.0

| la masticazione del paesaggio |

Sul tema della fotografia di montagna, di natura o di paesaggio, oggi, XXI secolo, quanto più uno scatto è "bello" nel senso classico del termine (per nitidezza, composizione, stacco del soggetto dallo sfondo, assenza di elementi di disturbo, ricercatezza del soggetto), tanto più il fotografo avrà fallito il suo compito.
In questi decadi di degrado ambientale, masticazione del paesaggio e distruzione degli habitat non abbiamo bisogno di realtà edulcorate. La maggior parte del nostro mondo, almeno qui in Veneto, è composto da ineradicabile bruttezza, solo che fingiamo di non vederla per superare l'ansia collettiva che ci attanaglia nel subire l'erosione dei beni comuni, giorno dopo giorno. E decidiamo di non rappresentare mai questo fenomeno. E decidiamo di attraversare velocemente la bruttezza in automobile per raggiungere i pochi spazi deantropizzati che ci restano. E lì fotografare "il bello", preoccupandoci di eliminare gli elementi di disturbo. Come in un sogno, o in una realtà rappresentata.
Il fotografo di montagna, di natura o di paesaggio, scatto dopo scatto, seguita nelle sue menzogne: fugge in quota e rappresenta un tramonto di enrosadira, coglie le simmetrie di due gruccioni posati, sfoca a meraviglia una libellula in accoppiamento. E quasi mai si interroga, quasi mai rappresenta, quasi mai grida contro l'orrore in atto. Che quella montagna è intasata di piloni, che dove nidificano i gruccioni tutto viene deturpato dalle motocross abusive lungo i greti dei fiumi, che quelle libellule si trovano ai bordi di un fosso eutrofizzato, nella morsa di aree industriali per metà abbandonate e colme di rifiuti negli scoli.
Egli dovrebbe raccontare la natura con le sue ataviche bellezze e con i suoi moderni drammi, invece ogni giorno dobbiamo accettare una passerella ipocrita di immagini simili a false promozioni turistiche, immagini che sono un inganno.
Rappresentiamo anche il resto. Proviamo ad immaginare cosa c'è dietro le ombre proiettate sul muro della caverna.

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Federico Balzan

E se la TAV fosse un altro Vajont?

2.0

| 5.000 anni |

Celebrazioni per i cinquant'anni. In attesa dell'evento della memoria nel pomeriggio, scendo alla base della diga, lato interno. E, giunto nel mezzo, poso la mano su quella muraglia fredda di cemento che mi sovrasta per decine di metri. Il gesto sembrerebbe evocativo, ma non riesco a pensare a niente.
Risalgo e, sul piazzale, ascolto il concerto di pianoforte, così come in questi anni ho ascoltato messe, spettacoli, film, discorsi, memorie, libri, preghiere, incazzature.
Poi tutto finisce e solo più tardi, mentre percorro a piedi il sentiero fino a Casso per poi ridiscendere verso Longarone, tra i faggi, intuisco che la memoria di questo giorno di cinquant'anni fa non deve essere solo questo. Deve essere critica, indagine, lotta verso tutto quello che potrebbe essere un nuovo Vajont, quando si è in odore di rapina dei beni comuni, di gigantismo, di soprusi, di violenze, di finalità faziose, di insensatezze, di mafie, di pericoli per la salute e per l'ambiente in nome di interessi fintamente collettivi.
Ora giustamente ricordiamo questi morti, ma cosa sappiamo fare davvero nel loro nome oggi? Siamo davvero sicuri che non ci sia più nessun Vajont? Che non lo sia la TAV, che non lo siano i modelli di consumo che ci vengono imposti, l'Ilva, le infrastrutture che brutalizzano i nostri paesaggi, il paventato ritorno al nucleare, il consumo di suolo scellerato, la retorica della crescita?
La dinamica degli eventi del Vajont oggi ci indigna. Gli avvertimenti inascoltati, i ricatti, i soprusi, il rischio sulla pelle degli altri per il profitto. Sembra un mondo lontano, irripetibile, barbaro.
Ma finiti i discorsi, gli elenchi, le preghiere, i Ministri in visita, la miglior forma di memoria non è forse saper riconoscere e denunciare dov'è il Vajont oggi?

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Federico Balzan

Le montagne invisibili

MontagneInvisibili

L’Italia è una spina dorsale di montagne, dal Carso di Trieste prende la rincorsa, si alza e si chiama Giulie, si trasforma quindi in Carniche, poi Dolomiti, Retiche, Lepontine, Pennine, Graie, Cozie, Marittime. Non si ferma nemmeno e noi già la chiamiamo Appennino ligure, tosco-emiliano, marchigiano, laziale, abruzzese, sannita, campano, lucano, calabro. E la spina dorsale mai si spezza, va sempre più giù e prende il nome di Peloritani, Nebrodi, Madonie. Infine, a voler traversare il mare, ricompare un’ultima volta per chiamarsi Gennargentu e Supramonte. Quanti chilometri sono? Duemila? Di più?

Le montagne attraversano tutto il nostro Paese. Nessun elemento morfologico lo caratterizza così tanto. Nemmeno le coste, che pure sono lunghissime.

Gli Appennini sono simmetria bilaterale dell’Italia, le Alpi lo sono dell’Europa. Sono quasi tutto.

Ovunque vi sono pascoli, pareti che gettano ombra, crinali con erba magra piegata dal vento, capre in bilico, nevi cotte dal sole ad aprile, nevi incerte e polverose a novembre, strade con migliaia di tornanti. E poi ci sono gli uomini e le donne, che pure sono qualche milione, cosa mica da poco, che vivono con l’orizzonte sbarrato da un orizzonte che è anche un po’ abbraccio materno, rassicurazione, senso di appartenenza. Costoro vivono non solo in due dimensioni, ma in costante relazione con la verticalità.

Eppure, a guardare il telegiornale, a leggere il giornale, insomma a stare nel mondo, le montagne dell’Italia sono invisibili. Non sono mai protagoniste. Non lo sono nella cronaca, non lo sono nel linguaggio, sempre troppo poco competente in tema di “terre alte”, non lo sono negli indirizzi politici, non lo sono nel senso di appartenenza nazionale. Il nostro sembra un Paese composto di vita metropolitana e da qualche pezzettino di mare.

E guardare il TG3 montagne, l'unico spazio esistente, in onda venerdì dalle 8 alle 8:30, un po’ mi piace e un po’ mi fa arrabbiare. Mi piace per i temi e i personaggi colti che fanno bellissimi servizi. E mi fa arrabbiare perché guardandolo capisco che alla montagna viene dedicato talmente poco spazio che, a stare quassù, talvolta si ha l’impressione di essere un’enclave di poco conto, un mondo antico e sacrificabile, una sacca di passato. È così da decenni.

Ma, forse, come in un sentiero che attraversa le valli, e mira a una forcella distante inerpicandosi per qualche pendio, sacrificando talvolta dislivello per aggirare qualche costone, così come siamo scesi un giorno, chissà, per qualche motivo lassù ritorneremo.

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Federico Balzan

La scoperta dell'aria calda

Fiera di Milano, Rho. Un esempio di architettura avulsa dalla realtà.

Negli anni ‘90, come è uso della dinamica della crescita, ci si accorge che la Fiera di Milano (nell'antica sede tra Porta Sempione e il Portello) non basta più, padiglione un tempo periferico ma ormai inglobato dall’urbanizzazione, difficile di logistica e non abbastanza capiente.

Si costruisce pertanto la seconda Fiera di Milano (ovviamente più grande), che ormai è talmente vasta che finisce in realtà per essere a Rho, in un continuum urbano che caratterizza tutta la pianura Padana.

Inaugurato nel 2005, si tratta di un polo fieristico molto grande e moderno, attraversato da un lungo percorso che taglia in due i padiglioni, per una lunghezza di 1,5 Km.

Ci arrivo in una tarda mattinata di inizio maggio, la giornata è splendida e la temperatura gradevolissima, di quelle che si conciliano con pantaloni lunghi e camicia di cotone. Si sta a proprio agio nell’ombra e senza soffrire in pieno sole.

Emergo dal sottosuolo del tunnel della metropolitana, e mi dirigo verso gli evidenti accessi segnalati con cartellonistica molto intuitiva. Mi attende un convegno presso la porta sud, dovrò attraversare a piedi circa metà del percorso pedonale.

Ed è qui che vedo la volta. Sopra il patio di accesso, vedo un’enorme copertura in vetro e acciaio, lunga 1.500 metri, di larghezza variabile tra 32 e 41 metri. In pratica è un tetto che sovrasta tutto il percorso pedonale che taglia in due parti la fiera. Architettonicamente è splendida.

La copertura se ne sta a circa 15 metri di altezza, sorretta da piloni di acciaio, e ai lati c’è in effetti un sacco di “luce” (in senso ingegneristico) per far passare il vento.

Tuttavia il sole, come detto, lassù picchia ancora con discrezione ma allegramente. Se all’aria aperta la temperatura è ottimale, sotto quella maledetta copertura c’è un forno. E sono solo i primi di maggio. Io penso che a luglio, in quelle giornate in cui si boccheggia, sia fisiologicamente impossibile transitare sotto quella volta.

Sfortunatamente (in realtà fortunatamente) quell’ambiente non si può gestire con l’aria condizionata perché, come detto, ai lati ci sono ampissime aperture, che però a quanto pare non sono sufficienti a scongiurare l’effetto serra, evidentissimo.

Il famoso architetto Massimiliano Fuksas forse non ha pensato a questo.

Il risultato è grottesco. Per fare un’architettura ad effetto e per la funzionalità di risparmiarci qualche goccia d’acqua se piove è stata creata, immagino a prezzi altissimi vista la ricercatezza della costruzione, una struttura completamente disfunzionale, che preclude la sua fruizione in condizioni di comfort per almeno 5 mesi l’anno, quando c'è il sole.

E pensare che erano lì pronti 1,5 km di percorso da dedicare a due filari lunghissimi di profumati tigli, eleganti frassini, solitari noci, flessuosi carpini, chiassosi maggiociondoli, discreti olmi. E chissà cos’altro ancora potevano metterci.

Essi avrebbero perso le foglie d’inverno per far passare i deboli raggi del sole, intiepidendoci, per poi rimetterle a primavera e regalarci fresca ombra, col canto degli uccelli e il delicato fremito delle foglie ad ogni refolo di vento. Sarebbero costati incommensurabilmente meno e avrebbero reso il polo fieristico più fresco e meno artefatto. Per fare la bella architettura, come è giusto che sia, bastava scatenarsi sui padiglioni, come ora. Sulla passerella le foglie avrebbero sporcato il viale, certo, ma raccoglierle non sarebbe costato più della pulizia della attuale volta di vetro e acciaio, percorsa da orrende macchie di polvere e detriti ancor più difficili da pulire.

Sarebbero bastati centinaia di alberi, oppure accettare che un percorso all’aperto prendesse la pioggia. Invece c’è una copertura tanto bella quanto sciocca, ennesimo elemento architettonico che vuole suggellare l’abiura della tecnosfera alla natura, ma che finisce per essere la caricatura di se stessa, elemento che impallidisce di fronte ad un umile albero, intrinsecamente bello e funzionale al tempo stesso.

Il futuro dell’architettura dovrà fare i conti con questo, concretizzando una fattiva funzionalità in quel che propone. Sta già accadendo in alcuni casi, ma troppo spesso ancora no.

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Federico Balzan

Intervista al Prof. Rossano

Rossano

Viviamo in un mondo in cui giornalmente vengono perpetrate iniquità ed ingiustizie ai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo e agli ecosistemi naturali. Cosa sta succedendo e perché?

Il Prof. Rossano dice la sua andando a scomodare, tra le righe, nientemeno che la selezione naturale darwiniana.

Con la solita vena caustica.

Buona lettura.

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CARO ROSSANO, OGNI GIORNO VENGONO PERPETRATE INIQUITÀ ED INGIUSTIZIE AI PAESI DEL COSIDDETTO TERZO MONDO E AGLI ECOSISTEMI NATURALI. PERCHE’ CIO’ ACCADE?

Ciao a tutti e grazie ai ragazzi di Vividolomiti per aver sollevato questo spunto, che è centrale più di qualsiasi altro tema che riguarda la nostra società civile, perché in realtà è un tema che riguarda la coesistenza tra le specie sulla Terra.

Per indirizzare fin da subito la conversazione, temo che l’ottimismo su un miglioramento della situazione attuale – come sento talvolta in giro - magari grazie a una nuova consapevolezza critica e ad una divulgazione “colta” sui temi, sia molto irrealistico.

Basta leggere un giornale per vedere enumerate una serie incredibili di aberrazioni, torti, nefandezze planetarie. Perché tutto ciò? Per saperlo basterebbe saper interpretare la natura.

 

COSA CI INSEGNA LA NATURA?

Come i miei proseliti ben sanno, nei miei ragionamenti sulle sorti del mondo non riesco a non fare continui paragoni e rimandi alle dinamiche naturali che governano le specie in natura, sia animali che vegetali.

Le popolazioni crescono esponenzialmente o con una curva sigmoide sfruttando una risorsa naturale limitata, dopodiché, se la risorsa è rinnovabile, ondeggiano con movimenti sinusoidali attorno ad una linea detta “capacità portante”, nascendo e crepando con invidiabile precisione matematica. Se la risorsa non è rinnovabile e/o non possono spostarsi, la popolazione va a carte quarantotto. Inizia cioè la moria.

Sebbene a prima vista la nostra specie possa sembrare del tutto affrancata dalle leggi della natura, in realtà le nostre ricchezze primarie si basano unicamente sulle risorse naturali. Il resto è aria che ci siamo inventati, dal valore gonfiato di un terreno edificabile rispetto ad un terreno agricolo, fino al valore di mercato delle certificazioni eccetera. Anche il fondamento dei nostri schemi comportamentali ricalca la componente biologica, la quale è tuttavia, nella nostra specie, largamente influenzata dalla cultura, dalla memoria collettiva dell’esperienza pregressa, dallo sviluppo del concetto della consapevolezza di sé e di tutto ciò che questo comporta. Di fatto, abbiamo taluni schemi comportamentali che sembrano negare i fondamenti della selezione naturale darwiniana (ad esempio l’altruismo), che però riemergono potenti nei casi in cui è in ballo, davvero, la nostra sopravvivenza.

 

2012, OGGI.

Siamo in un momento storico mai vissuto fino ad ora. Ciò vale in realtà per la gran parte della dinamica che ha conosciuto la storia plurimillenaria dell’umanità (e non quella plurimiliardaria della Terra), ma l’aumento sempre più repentino della popolazione, unita alle notizie che le risorse sulle quali basiamo il funzionamento della nostra civiltà si stanno esaurendo, non possono non fare immaginare ad uno scenario di crisi del sistema nel brevissimo periodo. Intendo crisi nel senso biologico del termine, ossia con estinzioni o forti ridimensionamenti della popolazione.

Perché si è verificato questo climax di crescita, che diamo quasi per scontato ma che in realtà è un fenomeno mai accaduto prima, intendo dire da quei 5 miliardi di anni che Dio ha deciso di mandare finora in Terra? E qui cito Bukowski! [Ride - ndr]. Semplicemente per la subitanea disponibilità di energia di cui abbiamo potuto disporre con la venuta dell’era dello sfruttamento del combustibile fossile, da appena 150 anni a questa parte. Appena 150 anni su 5.000.000.000 di anni! Scrivilo in cifre che così si capisce bene quanto particolare sia questo momento storico!

La vita sulla Terra dipende dal flusso di energia liberata dalle reazioni termonucleari che avvengono all’interno del sole. Stiamo parlando di circa 1,3 X 10^24calorie annue; questa quantità è detta “costante solare”. Dall’era solare (quella vera) con input in ingresso unicamente dalla fissazione dell’anidride carbonica delle piante, quindi tradotta in zuccheri e ossigeno, metabolizzata dagli animali, glicolisi, ossidazione, decomposizione e via discorrendo, si passa ad un’era artefatta, del carbone e del petrolio, caratterizzata da una disponibilità energetica mai vista prima, che altera gli equilibri.

È questa l’energia scriteriata che regola la nostra inCiviltà (sic) e i nostri spostamenti planetari, e soprattutto delle merci che consumiamo. Dalle banane all’acciaio dei tubi dei nostri acquedotti, dal silicio dei PC alle plastiche degli arredi urbani.

 

CHE SUCCEDE QUINDI?

Tutto quello che era stato pazientemente generato in milioni di anni dal sole, sornione, con il suo bell’irraggiamento di un tot di calorie per metro quadro (se lo misuriamo con la quantità di energia chimica accumulata dalle piante), lo stiamo bruciando in un oplà. Siamo diventati quello che siamo grazie al petrolio, in un certo senso anche i miei pensieri – misericordia! – sono figli del petrolio, perché il mio surplus rispetto alla sopravvivenza (studi, divertimenti, divagazioni, bicchierate con gli amici accademici ecc.) è dovuto a quell’energia.

 

E ALLORA?

Come accennavo sopra, anche noi siamo soggetti a selezione naturale e competizione interspecifica e intraspecifica per risorse limitate. L’interspecifica la mettiamo in atto tutte le volte che stabiliamo che le nostre attività economiche rappresentano un prius logico rispetto alla vita delle altre specie di esseri viventi. Ciò accade praticamente sempre. L’intraspecifica la mettiamo in atto tutte le volte che schiavizziamo o sfruttiamo un popolo. In futuro, i conflitti e le risultanze di questa inevitabile competizione saranno amplificati a) dal fatto che 7 miliardi di persone che aspirano a vivere (legittimamente) meglio sono tantine b) dal fatto che aggraviamo il quadro fondando il nostro essere su risorse non rinnovabili, facendole uscire per sempre (in termini non geologici) dal ciclo. In natura, come è noto, i cicli sono chiusi, tranne l’approvvigionamento energetico che è a senso unico, almeno finché il sole fra altri 5 miliardi di anni non chiuderà i battenti.

Con queste premesse, i conflitti che nasceranno saranno sempre più feroci.

 

QUALE SCENARIO PER IL FUTURO?

Qualunque individuo di una popolazione lotta per le risorse. Lo fanno i camosci, gli insetti e lo facciamo anche noi. Competono anche le piante. Il mio stesso stile di vita è basato sullo sfruttamento delle risorse di qualcun altro, a pensarci si diventa matti. Già ora le risorse non bastano più, e altre fette di mondo aspirano oggi a vivere meglio, e cercano di arrangiarsi sfruttando a loro volta qualcun altro. È il caso della Cina che, come è noto, si sta “comprando” l’Africa. Abbiamo di fatto un neocolonialismo.

Ad un climax segue sempre un qualche evento catastrofico. Probabilmente voi trentenni di Vividolomiti vivrete abbastanza a lungo per patire le conseguenze di questi squilibri e di questa dinamica ingovernabile della curva della nostra specie. In UE non abbiamo più ricchezze primarie, per un po’ di tempo continueremo a far valere la nostra autorità nel panorama geopolitico e con cazzate tipo il know how sul terziario, ma presto o tardi avanzeranno altri pretendenti – già legittimamente lo fanno – per garantirsi la sopravvivenza. Andremo in malora prima noi, ma in ogni caso subito dopo andranno in malora tutti, semplicemente perché la dispensa della nostra cucina si sta esaurendo.

 

ROSSANO, QUINDI SIAMO FOTTUTI?

In sostanza, sì.

 

NON C’E’ L’HAPPY END?

Com’ebbi a dire sempre ai miei seguaci, di veramente sostenibile in realtà non c’è un accidenti, se non l’agricoltura tradizionale di sussistenza. Il resto sono lussi che chi verrà dopo di noi non conoscerà. La green economy è un inganno. In teoria ci sarebbero delle riserve di possibilità legate ad una seconda era solare, ma le famose calorie su metro quadro del sole al momento non bastano per la società che abbiamo in mente, quindi una decrescita è inevitabile.

E la decrescita non sarà felice, come teorizza qualcuno, ma porterà inevitabilmente con sé privazioni e sofferenze. Non è un caso che insistiamo ciecamente sul modello di crescita a tutti i costi, nonostante sia chiaro anche ai sassi che non ha futuro. Il passato ci terrorizza. Dopo esserci affrancati soltanto da cinquant’anni da quella civiltà contadina che significava miseria ed orrore, ci risulta inconcepibile l’idea di tornare indietro.

 

LA LETTURA DEI LIBRI DI PESSOA HA INFLUENZATO QUESTA TUA VISIONE DEL MONDO, FRANCAMENTE INSOPPORTABILE?

È possibile, tuttavia ci tengo a precisare che in questo periodo sto leggendo unicamente la guida sci alpinistica di Vascellari, edizioni Vividolomiti.

[Pausa]

Questa non diciamo che è combinata! [Ride nuovamente - ndr].

 

PROFESSORE, TORNERAI AD ARRAMPICARE CON NOI?

Vivere tocca, per cui verrò.

 

ARRIVEDERCI E GRAZIE.

In gamba, ragazzi.

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Federico Balzan

Colonne d'ercole

Ercole

«...ma se esci dalla città XYZ non c'è più niente».

Quante volte ho sentito questa frase? In genere viene detta da molti riferendosi a spazi più o meno naturali ed agricoli. Dove costoro, cittadini avvezzi a muoversi in spazi urbanizzati ed addomesticati, non sono in grado di riconoscere un valore, una funzionalità, un fine. Sono cioè estranei. Essi sono la maggior parte dei nostri connazionali, poiché in Italia non c'è mai stata una cultura naturalistica diffusa e seria.

Nessuno di questi sa emozionarsi per il volo ondulato del picchio verde, sa interessarsi dell'erba fienarola, sa mettere a fuoco piccoli dettagli naturalistici né rispettarli. Gli habitat naturali e semi naturali sono, appunto, "niente".

Di conseguenza costoro sono gli stessi che si propongono di "valorizzare" queste aree in cui essi non riconoscono un valore. Con urbanizzazioni, cemento, opere inutili. La loro è una sorta di lenta colonizzazione verso la totale alienazione dell'Uomo dagli spazi naturali. Perché l'urbanizzazione, in fondo, dà loro sicurezza.

Mi sa che è dentro quelle teste, dove "non c'è più niente".

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Federico Balzan

Nevegal ... the prequel

Cari tutti, vi scrivo poiché, molto in ritardo, ho scoperto che esiste un progetto di nuova edilizia e nuova viabilità in Nevegal. Le opere di progetto sono nuove case, nuova viabilità, una scuola alberghiera, parcheggi, attività commerciali, centri benessere, ulteriori opere per turismo religioso, aree “attrezzate a verde” ecc.

Sono sicuro che a molti di voi è evidente che gran parte delle volumetrie in Nevegal sono già adesso inutilizzate o sovradimensionate (le due torri, il santuario, molti villaggi ecc.). Costruire nuovi edifici non è nient’altro che, a mio avviso, un’operazione disperata di speculazione, che porterà soldi solo ai costruttori. Infatti al momento non c’è nessuna domanda sul Nevegal, ma si cerca di indurla forzosamente con le urbanizzazioni di progetto.

Lo scenario futuro pertanto sarà, con molta probabilità, l'abbandono di nuove opere oltre a quelle che già danno brutta mostra di sé al Colle, una volta esaurito l'entusiasmo per la novità.

A mio parere si tratta della solita logica, insopportabile, dell’aggiungere cemento al cemento, sperando che si compia un miracolo. I troppi esempi di villaggi e opere gigantesche abbandonate sulle Alpi evidentemente non sono un monito sufficiente.

Il Nevegal non ha neve, ne è in penuria cronica. Anziché tener in vita il malato terminale bisognerebbe pian piano riconvertire l’esistente, smantellare laddove le attività non sono possibili, prediligendo una fruizione “leggera” senza bisogno di tenere in piedi a tutti i costi strutture sempre più costose e sovra dimensionate.

Vi invito a vedere il video (ufficiale) che presenta sommariamente il progetto. Dura 5 minuti e l'audio non è necessario.

Osservate le nuove cementificazioni previste. Osservate che non c’è traccia di riconversione dell’esistente, osservate che c’è soltanto un’insopportabile retorica alla quale i "render" ci hanno abituati. Gente sorridente tra "natura incontaminata" e "borghi lontano dalla pazza folla".

Forse non tutti la pensano esattamente come me, ma un gesto di informazione mi sembrava doveroso, per voi che abitate più o meno ai piedi del nostro Colle.

Assumere una posizione critica è già qualcosa.

Nevegal...to be continued

Progetto "Abitare il Nevegal" - aggiornamento

Per chi fosse interessato alla vicenda, riprendo questo argomento aggiornandovi con nuove informazioni.

Sono stato ricevuto in data 4/2/2012 dall'assessore del Comune di Belluno Angelo Paganin che mi ha, con cortesia e chiarezza, spiegato nel dettaglio il progetto, dedicandomi ben un'ora e mezza del suo sabato mattina.

L'assessore ha un mandato che, a prima vista, non c'entra col progetto (è assessore alle politiche sociali). Tuttavia, egli si occupa in prima persona del caso per il suo rapporto stretto con i promotori originari di questa idea, ossia Antonio Mezzomo, Silvio Pasa e Riccardo Lovat, illustri esponenti dell'associazione "Bellunesi nel mondo".

A fronte della sua indubbia disponibilità, delle pur ottime idee e della ragionevolezza dimostrata durante l'incontro, io rimango contrario a questo progetto per i motivi che cerco in seguito brevemente di spiegare.

Il fulcro del progetto "Abitare il Nevegal" si fonda sulla presenza di un sede distaccata di una prestigiosa scuola svizzera superiore nel campo dell'accoglienza alberghiera e turistica in genere. La scuola, va detto, è annoverata tra le più prestigiose al mondo in questo campo. Non si tratta nemmeno di una scuola professionale di lusso, ma di una specie di corso universitario. A quanto pare, il meglio sul panorama internazionale.

L'idea di investire sulla formazione turistica a Belluno, che vede il proprio comparto industriale ridimensionato o in declino rispetto ad alcuni decenni fa, è giusta e condivisibile. L'impulso all'industrializzazione del dopo Vajont (legge 357/1964) nella nostra Provincia ha determinato uno sviluppo che, a fronte di evidenti benefici, ha fatto sì che non si estendesse mai quella cultura della ricettività turistica che ai nostri vicini (Südtirol e Trentino) non manca.

Il futuro della nostra Provincia passa anche attraverso il turismo ed è giusto iniziare ad impararne l'arte.

Il progetto "Abitare il Nevegal" si pone l'obiettivo ambizioso di portare nella scuola circa 600 studenti provenienti da tutto il mondo. Grazie a loro e a chi gravita attorno a loro (professori, personale amministrativo, famiglie in visita ecc.) si conta di sviluppare l'indotto e di fare in modo che il Nevegal resti abitato tutto l'anno, traendo vita dal campus universitario.

La scuola verrà costruita ex novo, anche se non si sa ancora dove. Ci sono delle buone idee relative al riutilizzo dell'esistente, ma ahimè un po' vaghe: mi risulta difficile immaginare, ad esempio, che gli appartamenti sfitti esistenti possano diventare alloggi per studenti, visti comunque l'enorme distanza e il dislivello che ci sono tra le casette in zona Ghiro e l'area della pineta, da quel che ho capito una delle possibili localizzazioni per l'edificio della scuola. Sarebbe un campus un po' troppo dispersivo, insomma.

Le due torri verrebbero riutilizzate per farne un centro di formazione continua e un centro congressi. Gli impianti di risalita verrebbero ridimensionati.

Il primo dubbio che viene è quello se sia ragionevole immaginare uno scenario del genere: 600 studenti provenienti da tutto il mondo (Giappone, Australia, India ecc.) da adesso in poi. Per sempre.

C'è davvero così tanta richiesta? Siamo sicuri che gli esuberi di domande della Svizzera riempiranno il Nevegal? Siamo sicuri che uno venga dal Canada per studiare in Nevegal?

L'assessore mi ha rassicurato dicendomi che c'è un accordo con la scuola svizzera stessa per garantire il numero di studenti concordato. Non ne dubito, ma se la domanda dovesse diminuire, cosa ce ne facciamo della nuova scuola che abbiamo costruito? E di tutte le edificazioni di contorno?

Il secondo dubbio che viene è se, al di là delle perplessità su questo approccio gigantista, il Nevegal sia la localizzazione idonea. Perché non a fondovalle, dove già esistono servizi, tessuto sociale ed urbanizzazioni? Perché a tutti i costi questa Amministrazione vuole creare un nuovo paese al Colle?

Mi è stato risposto che gli Svizzeri hanno fatto vari sopralluoghi in Provincia e hanno visto anche l'ex caserma Salsa e vecchi alberghi dismessi. Riconvertire qualcosa di già esistente a fondovalle sarebbe stato l'ideale, secondo me. Ma hanno voluto a tutti i costi il Nevegal.

I motivi che l'assessore mi ha riferito in riferimento a questa scelta sono del tutto marginali e, secondo me, pretestuosi: la tranquillità del posto, la bellezza naturalistica, i pochi accessi che consentono di controllare l'area (!) ecc. Pensateci bene: secondo voi un ventenne che viene dall'Australia resta volentieri in Nevegal la sera dopo le lezioni? I fine settimana? O è forse più stimolato da una città come Ginevra, come Losanna o, con le dovute proporzioni, come Belluno?

D'accordo, ora Belluno non offre molto, ma se dovessimo investire in ammodernamenti, non sarebbe meglio farlo in città? Per renderla una moderna città alpina come per certi aspetti sono Bolzano, Trento, Davos ecc.? Perché creare una città satellite in Nevegal, dipendente in tutto e per tutto dalla scuola?

L'assessore mi ha detto che è stato una sciocchezza negli anni '60 puntare tutto sul Nevegal con una variabile così aleatoria come il tempo atmosferico (riferendosi alla presenza o meno di neve).

Non viene forse il dubbio che riempire di così tanti studenti questo campus potrebbe essere ancora più rischioso e complicato?

In fin dei conti, l'Università di Padova è molto prestigiosa, eppure il corso distaccato sperimentale di economia del turismo (!) è naufragato dopo pochi anni. Non voglio essere per forza disfattista, è lecito sognare. Però a fronte di un investimento così grande è doveroso porsi delle domande sulla sua fattibilità sul lungo periodo.

Concludo. L'assessore ha esordito parlando di come risolvere il "problema" del Nevegal. Orbene, il Nevegal costituisce un problema solo perché abbiamo da gestire in eredità manufatti degli anni '60 che sono inadeguati alle dinamiche, alle richieste e perfino al clima di questo 2012. Alla luce di quanto sopra esposto, gli sforzi che questa Amministrazione sta facendo per risolvere il "problema" Nevegal costituiranno, a mio modo di vedere, il pesante fardello che la generazione futura dovrà sostenere. E allora il "problema" sarà doppio.

L'idea della formazione è giustissima. L'idea di farlo con logica gigantista in Nevegal (e non a fondovalle dove esiste già urbanizzazione) è una sciocchezza, che porterà soldi ai costruttori e al Comune grazie agli oneri della nuova urbanizzazione. Ma che ben presto sarà destinata a restare scatola vuota, insomma sarà una speculazione bella e buona. La solita vecchia storia sulle Alpi.

Prossimi sviluppi: ad oggi, sono stati coinvolti i 210 proprietari che, pare, si sono resi disponibili a vendere i terreni. L'obiettivo dell'assessore è chiudere un accordo di programma vincolante prima che si vada ad elezioni, che come sapete sono imminenti. Se vi va, diffondete, informatevi, parlatene, dite la vostra, scrivete sui giornali.

Una discesa sugli sci da Belluno a Palermo

Belluno-PalermoChilometri

Fruscia la neve sotto le solette degli sci, pigramente mi faccio trasportare da Belluno a Palermo, dalle Alpi al Mediterraneo. Ogni tanto pennello qualche curva, poi ancora giù, torpidamente trascinato dalla gravità per ore ed ore. Millequattrocentotredici (1.413) chilometri di pendio regolare e candido.

Una discesa ininterrotta lungo lo Stivale, tanto è lo sviluppo delle piste nella sola area Dolomitica (1). Un dedalo di percorsi, che a farli tutti non basta forse un inverno.

Eppure (di chilometri) ne vorrebbero sempre di più.

Persone

150 milioni di passaggi nel 2008/09, in aumento rispetto ai 136 del 2006/07 (2). Che non sono le fila degli sciatori che ingrossano, ma gli impianti che ci conducono in alto più velocemente per il prossimo giro di giostra, di valzer, di divertimento. Aumentano pertanto i bip delle seggiovie.

Gli sciatori in realtà calano. In Italia erano 3.210.500 nel 1997; nella stagione 2004/05 erano 2.440.000, con una diminuzione del 24% rispetto al 1997 (3).

Eppure (di persone) ne vorrebbero sempre di più.

Denaro

Nell'ultima seduta del 2009 la Giunta Regionale del Veneto ha assegnato ai concessionari di impianti e piste da sci del Veneto contributi per 2.700.000 euro. Grazie a questo provvedimento ammontano ad oltre 33 milioni di euro i contributi che la Regione ha concesso nel corso di questa legislatura per il settore degli impianti a fune e le aree sciabili (4). Questa attività economica viene infatti ritenuta traino per le altre, per cui foraggiata.

Eppure (di denaro) ne vorrebbero sempre di più.

Il fraintendimento e l'anomalia nascono da qui, dal denaro distribuito. Destinare questi contributi alla monocultura dello sci alpino, vetusto schema datato anni '60, è ad oggi la scellerata logica che falcidia il possibile sviluppo di un turismo diverso, moderno, dall'offerta variegata, più in linea con la fruizione naturalistica di quel meraviglioso ambiente che abbiamo la fortuna di abitare. Insomma serve una politica che si discosti dalla logica di trasferire i costumi e i consumi dalle città alle montagne.

È un percorso tortuoso, che richiede dolorose riconversioni per chi è abituato ad un certo tipo di business.

Ma la rotta va invertita, per salvare quel che ancora si può.

 

 1 Fonte: elaborazione da www.dolomitisuperski.com

2 Fonte: I numeri di Dolomiti Superski; Ufficio stampa Dolomiti Superski

3 Fonte: Turismo montano e turismo della neve: tendenze e prospettive per le Alpi e per gli Appennini; Alessio Liquori, Aggiornamento Nazionale TAM Leonessa (RI), 18 settembre 2010

4 Fonte: www.regioni.it; CINSEDO - Centro Interregionale Studi e Documentazione

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Federico Balzan