Le montagne invisibili
L’Italia è una spina dorsale di montagne, dal Carso di Trieste prende la rincorsa, si alza e si chiama Giulie, si trasforma quindi in Carniche, poi Dolomiti, Retiche, Lepontine, Pennine, Graie, Cozie, Marittime. Non si ferma nemmeno e noi già la chiamiamo Appennino ligure, tosco-emiliano, marchigiano, laziale, abruzzese, sannita, campano, lucano, calabro. E la spina dorsale mai si spezza, va sempre più giù e prende il nome di Peloritani, Nebrodi, Madonie. Infine, a voler traversare il mare, ricompare un’ultima volta per chiamarsi Gennargentu e Supramonte. Quanti chilometri sono? Duemila? Di più?
Le montagne attraversano tutto il nostro Paese. Nessun elemento morfologico lo caratterizza così tanto. Nemmeno le coste, che pure sono lunghissime.
Gli Appennini sono simmetria bilaterale dell’Italia, le Alpi lo sono dell’Europa. Sono quasi tutto.
Ovunque vi sono pascoli, pareti che gettano ombra, crinali con erba magra piegata dal vento, capre in bilico, nevi cotte dal sole ad aprile, nevi incerte e polverose a novembre, strade con migliaia di tornanti. E poi ci sono gli uomini e le donne, che pure sono qualche milione, cosa mica da poco, che vivono con l’orizzonte sbarrato da un orizzonte che è anche un po’ abbraccio materno, rassicurazione, senso di appartenenza. Costoro vivono non solo in due dimensioni, ma in costante relazione con la verticalità.
Eppure, a guardare il telegiornale, a leggere il giornale, insomma a stare nel mondo, le montagne dell’Italia sono invisibili. Non sono mai protagoniste. Non lo sono nella cronaca, non lo sono nel linguaggio, sempre troppo poco competente in tema di “terre alte”, non lo sono negli indirizzi politici, non lo sono nel senso di appartenenza nazionale. Il nostro sembra un Paese composto di vita metropolitana e da qualche pezzettino di mare.
E guardare il TG3 montagne, l'unico spazio esistente, in onda venerdì dalle 8 alle 8:30, un po’ mi piace e un po’ mi fa arrabbiare. Mi piace per i temi e i personaggi colti che fanno bellissimi servizi. E mi fa arrabbiare perché guardandolo capisco che alla montagna viene dedicato talmente poco spazio che, a stare quassù, talvolta si ha l’impressione di essere un’enclave di poco conto, un mondo antico e sacrificabile, una sacca di passato. È così da decenni.
Ma, forse, come in un sentiero che attraversa le valli, e mira a una forcella distante inerpicandosi per qualche pendio, sacrificando talvolta dislivello per aggirare qualche costone, così come siamo scesi un giorno, chissà, per qualche motivo lassù ritorneremo.
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Federico Balzan