GUIDA GALATTICA PER GLI ESCURSIONISTI-CICLISTI
(come sfondo un viaggio in bicicletta in Montenegro)
Denis ed io in vetta al Bobotov Kuk nella foto scattata da uno dei due tedeschi. I nostri veri volti sono protetti per evitare vostre eventuali ritorsioni.
Alcune estati fa, agosto 2014. Un venerdì sera di un weekend da bollino nero sulle autostrade. A quell’epoca ero emigrato e stavo nella Venezia di terraferma (la popolare Mestre).
Denis mi raggiunse dopo il lavoro da Belluno e, per festeggiare l’inizio delle vacanze, ritenemmo opportuno andare subito ad ubriacarci in una delle putride osterie in cui ero già uno di famiglia, anziché fare una partenza intelligente alzandoci prestissimo l’indomani. All’epoca entrambi eravamo scapoli. Ci svegliammo sabato mattina con calma, facendo una colazione da bohémienne. Poi, ingenuamente, caricammo le bici in auto ed entrammo in A4 direzione ex-Jugo, confidando nella vecchia utilitaria Škoda di Denis, già colma di cartacce, sudiciume e polvere. Ben presto fummo fermi in coda sotto il sole, un classico nazionale. Il piano B fu uscire a Latisana e trascorrere il resto della giornata alle foci del fiume Stella, dove due settimane prima avevo avvistato forse una lontra (ma m’era rimasto il dubbio che fosse una nutria) e volevo almeno trovare una delle sue famose cacche che odorano di miele e gamberetti o qualche pesta. Invece, finimmo per trascorrere la giornata insultandoci a vicenda per non aver consultato il bollettino del traffico.
Con una mossa da leoni ripartimmo alle 19 del giorno stesso, a traffico sbollito, per fare un’unica tirata fino a Spalato. Lì piantammo la tenda poco fuori dal casello alle 2 di notte, in mezzo a una stradina bianca perché la landa circostante era tutta buche e rovi. Io ero terrorizzato che un trattore mattiniero ci potesse investire di lì a poche ore, Denis si limitò a dirmi di non rompere i coglioni e si addormentò. Spiantammo la tenda quattro ore dopo, per proseguire verso la Bosnia. Io m’ero sognato il trattore tutto il tempo.
Con questo Denis, non si capisce perché siamo amici: in montagna lui cammina in salita il doppio di me e arrampica almeno tre gradi più di me. Quindi in teoria io sono un peso. Parla poco e la gente gli sta sulle palle, di solito. Forse nemmeno io sono così conciliante, in effetti. Ogni tanto litighiamo e non è un gran problema quando viaggiamo in bici, ognuno va per la sua strada, poniamo, per un pomeriggio. Il problema è quando siamo su una via in montagna, e mi viene il dubbio che lui lì davanti – lui è sempre davanti – dia uno strattone o molli la corda, e io lì a precipitare rimbalzando dentro un grigio canalone dolomitico, a perdere i miei migliori anni sfracellandomi laggiù. La polizia non sospetterebbe nulla, gli incidenti in montagna càpitano spesso.
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Insomma arrivammo alla frontiera. Denis si era dimenticato di fare mi pare la carta verde, e la fece lì sul momento con gli sbirri croati, pagando ovviamente molto di più. Io da stronzo non mi offrii di fare a metà, ma dissi all’incirca: «la macchina è tua, arrangiati». Giungemmo infine a Trebinje, in Bosnia(1). Parcheggiamo in uno spiazzo polveroso la Škoda di Denis, talmente malmessa che non sfigurava con il parco auto locale. Scaricammo le biciclette ed iniziammo a metterle a punto per il viaggio che ci aspettava.
Durante la preparazione del viaggio, avevo suggerito a Denis di dotarsi di portapacchi robusto da montare sugli occhielli filettati del telaio della bici, visto che l’anno prima eravamo stati in Ungheria e lui s’era portato tutto sulle spalle in uno zaino da trekking, e gli era venuto il mal di schiena. Niente da fare: quasi a farmi dispetto, prese un portapacchi da quattro soldi da montare a sbalzo sul tubo sella. Per risparmiare, disse. Questo accrocco malfatto si ruppe – lo giuro sull’onore del reportage narrativo neorealista del Blogger Contest – dopo duecento metri, quando la bici scese con un tonfo il gradino di un marciapiede. Lo sfanculai. Accroccammo ulteriormente l’accrocco con delle funi elastiche, io mi caricai parte della sua roba sulla mia bici e lo sfanculai di nuovo, e partimmo decisi verso la nostra destinazione: il Montenegro montuoso dell’entroterra, ché sulla costa ci avevano detto sono già passati i russi palazzinari ed hanno deturpato tutto.
Come detto, io sono una mezza sega e arrancavo sotto il sole in salita. Il caldo era opprimente e ci fermammo a fare il bagno nel fiume due volte. Arrivammo a Vilusi, paese mezzo affogato nella pietraia carsica e mezzo nel verde dei prati sfalciati: delizioso. Al bar facemmo amicizia con un ceffo che sosteneva di essere il criminale locale, di essere stato al gabbio in Italia e di essere latitante nel suo stesso paese natio dove, incredibilmente, nessuno lo cercava. Denis ne era affascinato. Io sulle prime fui guardingo, ma alla terza birra ero lì per lì dal farmi un autoscatto con lui, che nel frattempo mescolava fragorose risate ad aneddoti tratti dalla sua vita nei bassifondi. Ma non era finita. Con le birre mi salì un malessere mai provato prima, a posteriori credo fosse un’insolazione. Provai a mangiare una minestra ma vomitai tutto fuori dall’osteria, sul ciglio della strada. Nel frattempo sudavo. Non riuscivo nemmeno a stare seduto, né fermo. Denis, come una mamma triste col figlio in high da eroina, fece tutto per me: montò la tenda e sistemò il mio bagaglio, mentre io mi aggiravo per la boscaglia all’imbrunire, incapace di stare fermo, come una bestia braccata. Temevo di non riuscire a dormire, invece con sollievo scoprii che stare sdraiato mi riusciva benissimo, quindi mi addormentai in un minuto senza dire niente, vegliato da Denis, e il giorno dopo stavo da dio. Non so neanche se l’ho mai ringraziato.
Riassunto di paesaggio montenegrino.
Il viaggio proseguì e ci furono una marea di cose buffe e belle. Denis ad esempio aveva le mutande talmente vecchie che l’elastico non teneva più e gli cadevano, e io le ribattezzai le pornomutande. Una volta, passando per un gruppo di case, c’era un folle che faceva un gran baccano sbatacchiando gli zoccoli di legno, e nel frattempo urlava qualcosa tipo GNUAAARGH con lo sguardo perso nel vuoto e noi ci cagammo sotto. Quando giungemmo alla riserva di Biogradska Gora, in teoria una deviazione per far contento me, il naturalista dei due, Denis fu talmente affascinato da quegli alberi giganteschi(2) che si mise ad abbracciare i tronchi come un fricchettone californiano, e io rimasi interdetto. O di quella volta che chiesi informazioni parlando lentamente in inglese e facendo gesti ad una contadina al lavoro nella piana di Gornje Polje per poter campeggiare sotto il noce del suo campo, e lei mi rispose sorridendo con pronuncia perfetta che certamente acconsentiva, e scoprimmo dopo che era una professoressa di inglese.
Nelle lunghe ore di pedalate, chiacchieravamo e favoleggiavamo di incontrare qualche bella ragazza montenegrina, che non so se lo sapete è, secondo alcune fonti, la popolazione più alta del mondo (sì: anche più di scandinavi, canadesi eccetera). E altezza mezza bellezza, come diceva mia nonna.
Il paesaggio dell’entroterra nel frattempo faceva da sfondo: ampie depressioni carsiche, montagne calcaree che in fondo sembrano un po’ le nostre Marmarole, ruralità straripante, fienagioni in corso, contadini sui carri, strisce di rifiuti ai lati delle strade principali. I campeggi non esistevano e si piantava la tenda sulla cima dei poggi e ci si lavava nei fiumi, da veri duri. Insomma, il massimo per la nostra filosofia di viaggio.
Già, ma qual è dunque questa filosofia? Nel titolo parlo di escursionisti-ciclisti, un accostamento da me inventato, che è diverso dal ciclo-escursionismo, in cui si va su strade bianche e sentieri ma pur sempre si pedala, o al massimo si “spalleggia” per brevi tratti ma non ci si separa mai dalla bici. Forse per un qualche mio “percorso interiore”, io contemplo la bicicletta per andare su strade asfaltate minori e strade bianche. Oltre (sentieri, prati e rocce) preferisco andare a piedi, gesto che comunque mi piace tantissimo. Se arrivo con la bici in cima ad un passo stradale e vedo che da lì parte un sentiero per una montagna che mi attrae, amo la libertà di mollare la bici dentro un cespuglio e salire a piedi sulla cima con uno zainetto leggero. Poi ritorno e continuo a pedalare, o se si è fatto tardi monto la tenda nei pressi.
Talvolta, sebbene mi piaccia il gesto della pedalata, l’impostazione delle curve, il brivido della discesa eccetera, penso di usare la bicicletta soprattutto come uno strumento finalizzato a trasportare i bagagli, necessario quando si sta via per lungo tempo in autonomia a far finta di essere Knulp, con l’approccio lento di chi va a piedi. Prediligo, come si vede, le zone rurali e naturali con saliscendi. In generale, cerco di essere frugale, perché aiuta a fare incontri con la gente, visto che c’è tanta gente gentile che merita di essere incontrata.
Infine, amo le mountain bike di fine anni ’90 perché sono di robusto acciaio, le trovi usate a pochi soldi, ci puoi montare il portapacchi, le so aggiustare anch’io che come meccanico sono un macellaio messicano e se te le rubano amen.
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Ed ecco ora l’aneddoto migliore della vacanza: stavamo praticando l’essenza dell’escursionismo-ciclismo ossia, dopo una giornata di pedalate su strade rurali, avevamo occultato le bici nei boschi presso i laghi del Durmitor per salire a piedi gli ulteriori novecento metri di dislivello fino alla cima del Bobotov Kuk, la seconda montagna più alta del Montenegro, per godere del tramonto.
Sali e sali, eravamo ormai sulla crestina rocciosa finale della montagna, da percorrere camminando e mettendo giù le mani ogni tanto. Denis, ovviamente, mi precedeva. Ad un certo punto, mancavano pochi metri alla vetta, lo vidi protendersi all’indietro sbucando con la testa tra due massi calcarei in bilico.
«Ci sono due ragazzi nudi in cima!» annunciò.
«Eh? Cosa?» riuscii a farfugliare mezzo accecato dal sole radente e dal sudore che mi colava sugli occhi miopi. Nel frattempo però allungai il collo per vedere meglio.
«…e si stanno anche inc*lando!» aggiunse.
Il mio cervello andò in tilt.
Nei concitati successivi istanti, i due ragazzi si rivestirono precipitosamente, e noi arrivammo sulla cima con estrema lentezza, fingendo di aver guardato fino ad allora il panorama circostante. Io, nello specifico, osservavo accuratamente le mie scarpe, come ad interrogarle sul da farsi.
Smozzicammo un saluto, dicemmo le nostre rispettive nazionalità (loro erano tedeschi, ed erano circa nostri coetanei). L’imbarazzo era evidente. Denis lo affrontò domandando con candore, nel suo inglese che pare parlato da un pakistano: «Can you take a picture of us?»
Gli lanciai un’occhiataccia e gli dissi, in dialetto bellunese, sia mai che i tedeschi capissero l’italiano, che non mi pareva una bella idea dargli in mano la mia macchina fotografica visto che fino a pochi istanti prima quelle mani si stringevano reciprocamente il caz*o.
«Sarai mica omofobo?» incalzò Denis.
Risposi balbettando che no, ero progressista socialdemocratico e ovviamente il problema era esclusivamente di igiene e, sempre in dialetto, iniziai a perorare la causa dei diritti di genere, del libero amore eccetera. «E se fossero state due ragazze, saresti stato così schifiltoso?» replicò trionfante. L’arringa mi morì presto in gola, sostituita dalla vergogna.
La foto si fece. I tedeschi erano pure simpatici e l’imbarazzo si dissolse e ci rilassammo, come è giusto fosse tra persone intelligenti in cima ad una bella montagna in una memorabile serata estiva. Beninteso, al loro posto l’avrei fatto anch’io, intendo l’amore - non con Denis, certo - se mi fossi trovato lì con una tosa bendisposta a fare altrettanto, alle otto di sera in una delle giornate più lunghe dell’anno.
Il sole sprofondò all’orizzonte. Scendemmo e piantammo il campo in mezzo alla prateria zeppa di sassi, si alzò un vento che ululò tutta la notte e io temetti che la mia tenda acquistata al supermercato si lacerasse.
Ci si lava nei fiumi con (poco) sapone biodegradabile.
Infine, una delle cose più belle del viaggio fu una discesa poco pendente di ben quaranta chilometri percorsa nelle ore del tramonto. Ricordo di aver pensato che se ci fosse un paradiso (ma non c’è) sarebbe bello fosse così: rettilineo, un tornante in vista, pinzare il freno sinistro per caricare l’avantreno, “sentire” la bici che si acquatta come un gatto, sfiorare il freno destro appena prima dell’ingresso in curva, disegnare la traiettoria, rilanciare in uscita frullando duettrè pedalate, lasciarsi trasportare in basso dalla gravità, strizzando un po’ gli occhi. Avanti così, per l’eternità.
La discesa durò a lungo. Ho ancora vivo il ricordo di Denis che si ferma ad accarezzare i cavalli in mezzo alla strada, e poi noi che scendiamo euforici e felici e ci sorpassiamo a vicenda ridendo e già mimando la scenetta della montagna, mollando le mani dal manubrio per fare l’aeroplano, con l’odore del timo tra i lampi viola della poligala. E la piana di Podgorica laggiù in fondo ormai in ombra, ma noi ancora su, nel bagno di luce del sole arancione, con milioni di chilometri da percorrere e ancora tanto tempo da solcare prima di sprofondare nella notte, l’aria calda sulla pelle e il gusto di poter semplificare la nostra vita al punto di dover pensare solo alle prossime dieci pedalate, non ai prossimi dieci anni.
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Al ritorno la Škoda era tutta impolverata nel parcheggio: era rimasta lì per settimane in balìa degli eventi. Il finestrino lato guida aveva un segno come di qualcuno che avesse disegnato con la manica un oblò nel sudiciume, per vedere se dentro ci fosse qualcosa da rubare.
Ma la macchina era lì, intatta, e nessuno aveva rubato niente.
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(1) In realtà Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Qua bisogna stare attenti a non fare casino, che è pieno di Stati ed etnie, ed in genere se sbagli si incazzano, ed hanno ragione.
(2) Qui si trova l'abete bianco più alto e più grosso del mondo!
Crediti: la frase delle dieci pedalate e dei dieci anni è presa, mutuata, da una pubblicità su una rivista cartacea di montagna di tanti anni fa.