N E X U S, P L E X U S, S E X U S
N E X U S, P L E X U S, S E X U S
Impressioni dall’IMS International Mountain Summit di Bressanone - Brixen (I), 16 - 21 ottobre 2014.
I N T R O D U Z I O N E
0 di 3 | Il percorso della corda appoggiata alla parete
Il guaio delle citazioni è che poi bisogna mantenersi al loro livello. Per questo è molto più comodo, da pigri, fuggire i riferimenti e limitarsi a rielaborarli per farsi belli di qualche idea altrui. Tanto, tutto quello su cui si può discutere e su cui vale la pena discutere l’hanno già detto gli Autori classici, in un certo senso non si può più prescindere da certi archetipi letterari. Tutti i viaggiatori vengono dopo Ulisse, tutti gli amanti drammatici dopo Romeo e Giulietta, tutti i mutamenti senza contenuto dopo Il Gattopardo e così via.
Negli anni cinquanta Henry Miller prese se stesso e, attraverso un percorso di illuminazione spirituale, giunse alla scoperta del sesso, dell’arte, della conoscenza, per trasformarsi da uomo-ingranaggio della società industriale a uomo libero. Questo personale percorso diventerà la trilogia Sexus, Plexus e Nexus.
Lasciamo l’uomo nella sua introspezione, e andiamo all’uomo in rapporto con le montagne. Invertiamo la prospettiva. Qui, altri tre grandi temi – la dipendenza, la paura, l’autoreferenza – toccano il mondo delle altitudini e dell’alpinismo. Interrogarsi su di essi vuol dire mettersi alla ricerca, come in fondo si prova, in parte, a fare qui all’IMS di Bressanone - Brixen. Senza troppe pretese, che ci sarebbero un milione di altri temi da affrontare e, forse, l’illuminazione resta molto lontana. Ma si può portare a casa l’illusione di aver fatto un passo in più verso una maggiore consapevolezza.
Metafoto di alpinisti di cartone all’IMS.
N E X U S
1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo
Il dottor Guido Giardini è un medico specialista in neurologia con particolare interesse nel campo dell'ictus e della cefalea. Esperto in medicina di montagna, è responsabile dell’ambulatorio di medicina di montagna presso l’ospedale di Aosta ed è Presidente in carica della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM). Ospite all’IMS, è intervenuto nell’ambito dell’appuntamento Clean and honest mountaineering: reality or illusion? dedicato al doping nello sport d’alta quota e negli sport popolari, presentando i risultati del monitoraggio di alcuni atleti al Tor des Géants, un ultra trail che si svolge in Val d’Aosta e che prevede ben 330 km di sviluppo e 24.000 metri di dislivello positivo. Lo incontriamo a margine dell’intervento. Ecco le sue risposte ai nostri spunti.
1 | PRIMO TEMA
Dottor Giardini, vorrei approfondire con lei un tema che vorrebbe sondare anche il ruolo antropologico e sociale dell’attività fisica di resistenza e ultra resistenza in montagna. In quale modo si possono collocare queste attività sapendo che gli sforzi prolungati, la prestazione di durata ecc. generano endorfine nel nostro cervello? Ci stiamo in qualche modo facendo condizionare dalle droghe endogene? Ha in sé qualcosa di patologico l’accettazione e il compimento di tali sfide? Riempie un vuoto?
Non è una domanda semplice: sicuramente alcuni studi hanno dimostrato che quando una persona inizia, per svariati motivi, c’è poi una fase di ricerca proattiva del gesto della corsa, e che questo sarebbe dovuto anche alla produzione di endorfine; si tratta, ad essere precisi, di droghe non in senso stretto, o per lo meno non nell’accezione immediata e diffusa del termine. Le endorfine sono disponibili nel nostro corpo grazie alla selezione naturale ed hanno un preciso ruolo biologico. La funzione è far sentire il benessere e non fare sentire lo stress in determinate situazioni. Però, in qualche modo, in effetti, agiscono quasi come sostanze stupefacenti che inducono di conseguenza, come è ovvio, una ricerca del benessere e di perpetuazione dello stesso. Una dinamica simile ad una dipendenza, dunque. Pertanto c’è sicuramente una base neurobiologica nella ricerca della corsa sulle lunghe e lunghissime distanze. Questa però in genere viene dopo la motivazione iniziale della persona.
E cosa spinge le persone ad iniziare?
Nel nostro centro di medicina di montagna, ad Aosta, visitiamo persone che vanno in montagna per sport, per lavoro, per semplice passione. Ho notato, in questo caso, che i trail runner sono una categoria piuttosto particolare. Non voglio generalizzare, né dare giudizi, ma ho osservato una tendenza: complice il fatto che si tratta di uno sport facilmente avvicinabile (non serve molta attrezzatura e molti ambienti si prestano alla sua pratica), molti si avvicinano a questa attività dopo un evento di “frattura psicologica” nella vita. Può essere una separazione, un lutto, un’insoddisfazione al lavoro eccetera. Credo sia un modo per riappropriarsi di se stessi, del proprio corpo, trascurato forse dalla sedentarietà della vita o dal tempo dedicato ad altre persone. A volte però si crea una sorta di eccesso, quasi una parodia di liberazione. Da quel che mi è concesso di vedere nel mio lavoro, credo che il trail runner sia un po’ più a rischio di altri sportivi della montagna, sia per il maggior numero di praticanti sia, forse, per quella che mi sembra di intuire come una maggiore predisposizione a questa dipendenza, che individuo in questa categoria.
Volendo approfondire, vorrei dire che, lavorando sul campo e ascoltando queste persone, noto in alcuni una sorta di personalità che tende alla dipendenza, all’abuso. Infatti quando una persona diventa dipendente, c’è già una personalità alle spalle che lo porta alla dipendenza, ad esempio per l’utilizzo di farmaci o altro. Vi sono persone che, quando impossibilitate all’attività fisica (infortunio, brutto tempo eccetera), sembra quasi che stiano male. Anch’io faccio attività fisica, certo non estrema; ebbene, talvolta sono quasi sollevato che, ad esempio, il maltempo mi impedisca di uscire a fare dello sport in montagna. È il momento in cui penso «Farò dell’altro!» Invece per alcuni trail runner questo pensiero diventa difficile da tollerare. Ogni tanto mi sorprendo nel percepire nei miei pazienti quasi il dovere alla montagna.
[Il dottor Giardini dice questo e a me, frattanto, viene in mente Luca Beltrame, scivolato, pare, senza un lamento giù da una vetta delle Alpi Giulie un anno e mezzo fa, un tragico incidente, lui con quel taglio delle palpebre sugli occhi che rendeva la sua espressione così triste, lui che scriveva sulle riviste sezionali del CAI di salite di II, III, IV grado con splendida autoironia, delle prese in giro con gli amici, di risate ed avventure sulle Alpi orientali, di scalate tragicomiche, dei suoi bislacchi compagni di cordata, di alpinismo solare e normale insomma. E dopo decine di articoli con questo taglio beffardo e intelligente, se ne uscì con la narrazione della “diretta Kugy” sulla parete nord dello Jôf di Montasio, un pezzo stupendo che mi raggelò: nessuno spazio per ironia e gioia di vivere, solo la descrizione di una salita che sembrava quasi una pena a cui non ci si può sottrarre, un obbligo infernale, il sogno di qualcun altro nel quale ci ritroviamo improvvisamente, e di malavoglia, protagonisti. Chiudeva così Beltrame, spossato sulla panca del rifugio Fratelli Grego, dopo undici ore di fatiche: “Quando alzo gli occhi verso la grande parete nord, qualcuno mi fa notare che sono molto rossi. «Ah sì?» Traccio linee immaginarie su rocce scure. Dal ghiacciaio raggiungo nuovamente la vetta. Sono felice?”. Quante volte, anche per me, andare in montagna è fuggire da qualcos’altro, riempire un vuoto, forzare?]
E la componente di rischio ulteriore che hanno gli alpinisti? Come si inserisce questo aspetto, per nulla banale, della concreta prospettiva di perdere la vita? Non è paradossale cercare un senso alla propria vita rischiandola, dunque in qualche modo riducendone il valore?
Anche questa dinamica ha una valenza antropologica, psicologica e vorrei dire anche psicoanalitica, visto che per primo Freud parlò di amore e morte, Eros e Thanatos. Si tratta di un meccanismo di base del funzionamento della psiche per molti tratti di personalità. Anche questo, in ultima analisi, credo sia un modo di approfondire la conoscenza di se stessi e confrontarsi con il proprio limite o la propria “limitatezza”. Senza giudizio morale, o di valore. Credo però sia così.
Il dottor Guido Giardini durante l’intervista, fotografato con il peccio sullo sfondo. In un momento di insubordinazione di entrambi, abbiamo preferito quest’ultimo al consueto fondale con gli sponsor.
2 | SECONDO TEMA
Ho notato negli ultimi dieci anni una proliferazione di gare di resistenza estreme, le cosiddette ultra trail, sulle nostre montagne. Mi pare inoltre che si sia innescata una sorta di battaglia commerciale nella loro promozione che punta a vendere numeri sempre più alti, enfatizzando le gare con lunghezza e dislivello maggiori. Visto che, spesso, l’organizzazione di queste corse è affidata ad associazioni dilettantistiche, lei ritiene che il mondo che lei rappresenta, quello della comunità scientifica dei medici, possa o debba cercare di intervenire per dare un indirizzo, mettere in guardia gli atleti sui rischi, formare in generale il mondo delle corse in montagna?
Sì, è vero che c’è una corsa alla gara più lunga, alla ricerca degli sponsor, ad aumentare il numero degli iscritti. Questa dinamica è stata così rapida che il diritto e la scienza fanno fatica a stare al passo. Però mi sento di dire che quello che abbiamo fatto prima studiando l’Ultra Trail del Monte Bianco e poi il Tor des Géants va proprio nel senso della formazione, avendo sempre come primo obiettivo la sicurezza dell’atleta. Inoltre credo che la ricerca che viene svolta in questi campi debba essere necessariamente non profit e non accettare sponsor commerciali. Se possibile, gli studi dovrebbero essere indirizzati anche a sfatare alcuni luoghi comuni o opinioni diffuse: ad esempio, in generale si pensa che il Tor des Géants sia più critico dell’UTMB semplicemente per il fatto di essere più lungo. In realtà, è vero per alcune cose, mentre per altre no. I primi dati delle ricerche dimostrano che alcuni danni muscolari e scheletrici non siano così ovvi, forse per una velocità minore media nella percorrenza. In ogni caso, bisogna sempre distinguere tra atleti di punta, intermedi e atleti “delle retrovie”: i rischi sono molto diversi, e vanno dai traumi alle allucinazioni, dalle banali vesciche fino a vere e proprie lesioni da decubito, come quelle dovute allo sfregamento continuo dello zaino sul dorso.
[Ascolto queste parole, e ricordo due amici che mi punzecchiano con le loro visioni: il primo mi ha detto, tempo fa, dopo aver terminato a fatica un ultra trail, che la corsa è vigore, gesto, aria in faccia, danza, estetica. E trascinarsi per decine di km diventa la negazione di queste sensazioni. Il secondo mi ha detto che a ciascuno va il suo assurdo, che tra mandare in malora le proprie ginocchia e mandare in malora il mondo con le nostre abitudini consumistiche non c’è poi così tanta differenza, basta non scambiare le patologie per eroismi.]
3 | TERZO TEMA
Questi sono alcuni dei suoi campi di ricerca attuali. Quali sono però le sue visioni? Sul tema, di cosa intende occuparsi in futuro?
Recentemente abbiamo fatto un passo importante: a livello di Regione autonoma della Val d’Aosta abbiamo fatto riconoscere la visita di medicina di montagna come LEA (Livello Essenziale di Assistenza) e assegnando ad essa un codice ben preciso. Questo significa che in Val d’Aosta un paziente può venire da me o dai miei colleghi con l’impegnativa del medico di medicina generale per una visita di medicina di montagna. Questo ci consente di fare prevenzione sui rischi specifici dell’alta e media montagna. Faccio degli esempi: a questa visita possono sottoporsi un alpinista che ha avuto un edema polmonare a 8.000 metri e vuole ovviamente evitarne un secondo, un maestro di sci che ha avuto un infarto e vuol sapere se potrà ancora svolgere la sua attività professionale a 3.000 metri, una donna incinta che gestisce un rifugio a 2.700 metri e vuol sapere se potrà affrontare la stagione estiva di lavoro e così via. Come Presidente della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM) sto lavorando, con altri colleghi, per coinvolgere altre Regioni a statuto speciale per estendere questa iniziativa. Creato il precedente, penso sia più facile infine, attraverso la conferenza Stato-Regioni, l’estensione anche alle Regioni a statuto ordinario. Altre iniziative per il futuro saranno sempre lavorare sui tre assi fondamentali: l’attività clinica e l’assistenza, la ricerca clinica applicata, la formazione medica e l’informazione a chi non è medico.
Dottor Giardini, grazie del suo tempo e grazie per aver condiviso con noi i suoi pensieri. Buona giornata e arrivederci.
Prego, buona giornata a voi.
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Indice puntate
INTRODUZIONE | 0 di 3 | Il percorso della corda appoggiata alla parete
NEXUS | 1 di 3 | Dipendenza | Guido Giardini, medico neurologo
PLEXUS | 2 di 3 | Paura | Dave MacLeod, alpinista poliedrico
SEXUS | 3 di 3 | Autoreferenza | Gli incontrati, dentro e fuori
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Crediti
- La riflessione sugli archetipi letterari è sviluppata da uno spunto di Gaia Baracetti, nel libro Che male c’è.
- La visione della corsa come gesto di leggiadria è del mio amico Angelo, conversazione privata.
- L’espressione Ad ognuno il suo assurdo e la riflessione ad essa sottesa è del mio amico Paolo, conversazione privata.
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Federico Balzan