In viaggio sulle Orobie 2015
Estratto del blog del viaggio per conto della rivista Orobie, luglio 2015.
| Sfocature
7 luglio 2015
| Sfocature a due giorni dalla partenza |
Immaginate una linea continua, un tragitto, che percorra tutte le Alpi Orobie, da est a ovest, per decine di chilometri. Questa linea è una faglia, ossia una gigantesca frattura che permette un movimento tra due masse di roccia. Attorno ad essa la crosta primitiva, milioni di anni fa, bilateralmente si è accavallata, piegata, deformata, adattata, rotta, scoperta e celata. In pochi altri settori delle Alpi la geologia è, come qui, così complessa, varia ed articolata.
E questa tormentata storia geologica diventa, si capisce, l’origine delle ricchezze di queste valli: ecco che la diversità dell’orografia genera diversità di suoli; e la diversità di suoli genera quella degli ambienti che, a sua volta, genera diversità di flora e di fauna. E infine, perché no, di colture e di culture.
Immaginatene ora un altro, di percorso, fatto di donne e uomini dalle esperienze ed età diverse: contadini con le mani indurite ma dai gesti precisi, musicisti anch’essi con i loro piccoli calli localizzati laddove essi accarezzano le corde, i tasti, i fori degli strumenti; e poi alpinisti solcati, sui volti, dalle dure esperienze dei bivacchi in parete o in quota, sportivi abituati a fare i conti con la fatica, attori di ricerca, solitari sul palco durante i loro monologhi, fotografi silenziosi in un’alba gelida, cuochi attenti alle piccole sfumature dei sapori nei piatti.
Ciascuno con la sua diversità, essi proveranno a dare uno sguardo, un contributo alle valli che attraverseranno, pronti però anche a ricevere dagli inevitabili incontri che ci saranno.
“In viaggio sulle Orobie 2015” potrebbe essere anche questo. Ma non è detto, potrebbe essere qualcosa di più, qualcosa di diverso con direzioni inaspettate. Per ora ci sono le idee sfocate in partenza, come qualsiasi partenza. Il viaggio poi verrà da sé.
Si parte il 9 luglio dal paesino di Ornica e, se il toponimo non trae in inganno, cammineremo, almeno per un po’, con la fresca ombra degli ornielli, uscendo dal paese tra i muretti a secco con i radi ciuffi delle sassifraghe.
Crediti:
- foto rielaborata da expo.bergamo.it
| «Lo vedi? Siamo tutto quello che c’è attorno a noi.»
10 luglio 2015
| «Lo vedi? Siamo tutto quello che c’è attorno a noi. Siamo dentro» |
Ornica, Val d’Inferno, rifugio FALC, Premana, già il lago all’orizzonte.
È un’immersione al contrario. Non ci sono mute stagne, né pinne o boccagli. Quasi fosse una lenta anaforesi, migrazione sotto l’influenza di un campo magnetico tra anodo e catodo, dovuta ad una forza che sembra irresistibile, saliamo senza fretta verso l’alto con il corpo, eppure spingendoci sempre più in profondità con la testa e con il fluire della nostra introspezione. E il tutto avviene quasi inconsapevolmente, con levità, senza nemmeno accorgersene.
I rapporti tra i viaggiatori pian piano si consolidano, si aprono; alle volte ci si prende bonariamente in giro, subito dopo ci si ascolta attenti. Ciascuno fa scorrere con naturalezza, tra le migliaia di passi, il suo contributo, la sua conoscenza.
Si sale, osservando l’iperico, il veratro, il farinello buon-enrico, la campanula barbata, la genziana lutea, l’acetosa e l’acetosella; erbe più o meno buone per il pascolo, altre buone per la nostra cucina, altre solo per i nostri occhi.
Giunti alla “bocca”, la forcella, valutiamo, sguardo all’indietro, la morfologia tormentata della valle. E, nello stesso cono di paesaggio, il contadino stima la degradazione di alcune porzioni del pascolo, interrogandosi su quali possano essere i passi per il suo recupero, l’alpinista è rapito, scartando a lato, dall’incombenza delle pareti spioventi, comunque invitanti nella loro repulsione, il fotografo naturalista ascolta attento il verso dell’allodola e segue la sua lunga planata nel cielo chiaro.
A poco a poco, cercando di scansare la retorica e la presunzione, ci si ritrova a pensare che forse, in modo diverso tra di noi, siamo tutto quello che c’è attorno a noi, ci siamo dentro. Siamo dentro, per davvero, a queste montagne non solo col corpo, con discrezione, con esuberanza, ma anche con le nostre idee. Talvolta sognando la rivoluzione, talvolta invertendo la rotta di una strada già tentata, in continua sperimentazione.
Siamo una parentesi dell’industrializzazione che fu, oppure ne siamo il seguito. Senz’altro siamo in un’epoca di opportunità e sta a noi l’abbrivio e la fatica di trovare la strada nuova. Le Alpi, forse, possono esser da spunto.
La sera, nell’irripetibile atmosfera di un rifugio di montagna, Mario Curnis, decano degli alpinisti bergamaschi, mi guarda e da dietro la folta e candida barba bianca mi dice: «Io, da giovane, non ero mai stanco». Ma senza presunzione, così, quasi raccontando un fatto, un’ovvietà.
Collego la frase con le considerazioni di Ferdi Quarteroni, contadino di montagna, che poche ore prima mi ha fulminato, chiudendo un discorso appassionato e denso sul lavoro d’alpeggio, con questo sigillo: «Perché il lavoro in montagna, alla fine, dev’essere passione!». Veemenza e carisma.
E mi viene dunque da pensare che qualunque sarà il futuro, su cui abbiamo idee talvolta forse chiare, talvolta vaghe, necessariamente non potrà prescindere dalla fatica, ché alcune decadi di consumismo ci hanno reso estranea.
Il corno alpino di Martin Mayes, posato con un’estremità a galleggiare sull’acqua del lago di Como, vibra di toni profondi ed armonie per spazi aperti modulati con labbra, glottide e diaframma.
Le onde sonore si propagano, succedendosi, di qua e di là dell’increspato pelo dell’acqua; via etere, si sviluppano verso l’alto, rimbalzando di eco sul costone roccioso in fondo e risalendo – chissà – fino ai duemila metri delle praterie dalle quali siamo partiti stamane.
Dall’altro lato, con una diffrazione, sondano le profondità buie del lago, fino ai sassi fangosi del fondo, immobili, solitari e misteriosi, laddove ci è dato poco di conoscere, e molto di fare congetture.
Il sole cala anzitempo, nascondendosi tra i dirupi a picco sul lago.
Domani, il viaggio e la ricerca proseguiranno.
Crediti:
- foto di Klaus Dell’Orto.
| Confini verticali
11 luglio 2015
| Confini verticali ad incrocio |
Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.
Il testo è Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, l’anno è il 1994 e la mente era quella di Alexander Langer, politico, ambientalista, libero e lucido pensatore. Sempre mite e pronto al dialogo. Un uomo del quale, anche se non l’ho mai conosciuto, a distanza di vent’anni dalla morte, sento la mancanza.
Il contrabbando, tra Orobie e Svizzera, fu realtà storica di questi luoghi. Si transitava di qua e di là del confine, come bestie braccate, a metà strada tra la connivenza con l’ordine costituito e la paura vera di essere preda di un appostamento. E, in quei casi, la soluzione era, abbandonati i sacconi di juta, la rapida fuga lungo le pale ripide, mirando alla massima pendenza, giù, verticali, in fretta dannata. A cercar rifugio in qualche antro o spelonca di capre, rifiatare e ripartire. Anche col brutto tempo, l’erba sesleria bruciata dal gelo, i ramponi agganciati sotto le scarpe di cuoio consumato, che non fanno abbastanza presa sul terreno, sui quali mai fare troppo affidamento; come sulle nostre promesse agli altri, del resto.
Noi, oggi, percorriamo al contrario questi percorsi. Su una strada che fende la linea di massima pendenza salendo da Colonno, mirando a Casasco Intelvi. Siamo senza fiato e paonazzi in questo sole di luglio, increduli dell’ingegneria di questa linea che non conosce tornanti. Assurda per noi, funzionale però per i carichi di legna sulle slitte, la gravità amica nella discesa – a saperla dominare – vergognosamente ostile, quasi sciocca, in salita.
Oggi, tutti questi conflitti, queste difficoltà, almeno in questo pezzettino di terra, a noi sembrano quasi un mondo lontano, quasi fossero da prendere poco sul serio come una nevicata d’aprile. Ogni tanto ne scendono, di queste piccole bufere irridenti; arrivano dalla cresta là in alto, dove si abbarbica solo qualche pino mugo e dove noi mai abbiamo messo piede, e scendono leggere e discrete sopra i botton d’oro già fioriti. Ma bastano poche ore di sole, all’indomani o già nella inevitabile rischiarata pomeridiana, a farci dimenticare tutto. L’ansia per la legnaia piena non esiste più, ché la legnaia piena sembra non dover più servire, forse un altro inverno nemmeno arriverà.
Eppure i conflitti sono ovunque, non sono proprio una nevicata d’aprile. Talvolta sono pronti a scoppiare nuovamente, mai sopiti, un lieve tepore proprio al centro di una patata a cuocere sotto la cenere, quel punto invisibile che sotto la scorza mai si vede. Eccone uno sui monti dell’Armenia, in quel dannato confine con l’Azerbaijan, un altro ancora sulle aride montagne di Nuba in Sudan, e poi in Pakistan. E sulle Alpi?
Da Casasco Intelvi, la nostra meta di fine giornata, si vede una grande porzione del lungo lago glaciale dall’alto, si domina quasi. Le increspature dell’acqua, da lontanissimo, balenano di lampi bianchi intermittenti. Ma l’aspetto più interessante da qui, come dovunque nel mondo, sono i rami che non si vedono. Tutte quelle migliaia di insenature, con la mota calda, un’isola rocciosa, i carpini a specchiarsi sull’acqua fredda. Porzioni che per ora sono invisibili, oltre il confine, da raggiungere, se necessario, con disobbedienti azioni di contrabbando.
| Strategia d’uscita
14 luglio 2015
| Anni |
Gli anni non sono un dettaglio. Passano. Si stratificano gli uni sugli altri e talvolta creano pareti di calcare alte anche ottocento metri. Millimetro dopo millimetro, con piccole variazioni tra gli interstizi, giganteggiano nella loro struttura densa di piccole nummuliti. Alle volte ne bastano pochi, solo quattro, come ci è stato spiegato, per mutare il gusto di un formaggio, nella stagionatura. Infine, anche la conoscenza passa, testimone in continua variazione del tempo che scorre.
Ogni montagna può diventare montagna incantata, come quella della metafora di Thomas Mann, come ciascuna delle decine che abbiamo attraversato a piedi in questi quattro giorni. Ad ogni passo e ad ogni viaggiatore, muta di polimorfe variazioni, talvolta imprevedibili.
Consideriamo per un istante, appunto, l’incipit di questo romanzo, che nel corso di ottant’anni ha subito, nella traduzione italiana, alcune variazioni stilistiche. Eccole.
Un giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città natale, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane in visita presso un suo parente.
[traduzione di Bice Giachetti-Sorteni, casa editrice Modernissima, 1932]
Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane.
[traduzione di Ervino Poca, casa editrice Mondadori, 1965]
Un giovane uomo come tanti era partito da Amburgo, sua città natale, diretto in piena estate a Davos-Platz, nel Cantone dei Grigioni. Vi si recava in visita per tre settimane.
[traduzione di Renata Colorni, casa editrice Mondadori, collana Meridiani, 2010]
Nel colmo dell'estate, un comune giovanotto partito da Ornica, sua città natale, se ne andava ad Arogno, nel Canton Ticino, per un soggiorno indefinito.
[interpretazione, 2015]
Son tre libri diversi? E la nostra esperienza, darà mai un ulteriore senso, in aggiunta, ad un libro già stampato, apparentemente fissato?
Vien da dire di sì, che le opere d’arte, quelle classiche, si sanno adattare ai nuovi contesti, sono perennemente interpretabili, immortali eccetera. Nulla di nuovo, in fondo. Ma forse, osando, potremmo spingerci anche oltre, e arrivare a dire che sono i libri la proiezione delle nostre esperienze, che siamo noi stessi a scriverli, ad elevarli in una dimensione che nemmeno l’Autore ha mai immaginato, quando di un personaggio rappresentiamo anche i tratti che non sono davvero descritti, e che prendiamo a prestito dalle nostre relazioni.
Queste riflessioni scorrono nella mia mente, aleggiano sopra il nostro lungo serpentone di viandanti e contrabbandieri – per un giorno – in fila ciarliera coperti da una fitta faggeta, destinazione Svizzera. Il viaggio volge al termine, ciascuno pensa alla propria strategia d’uscita, ossia ad una condotta orientata a una transizione dalla situazione attuale, che abbiamo percepito come necessaria di un cambiamento.
Siamo arrivati ad Arogno, accolti meravigliosamente da un paese in festa. Sfiliamo quasi in passerella, felici e grati. Più tardi, nel culmine delle celebrazioni, che imperversano nella piazza centrale, cerco un istante di calma e solitudine camminando verso l’esterno della borgata, nell’ombra di pietra dei vicoli stretti ed antichi. Dopo poche decine di metri, è già il silenzio. In fondo ad uno slargo, una finestra è aperta e intravvedo un grande mobile di legno sverniciato colmo di libri.
I libri sono chiusi, stipati tra di loro. L’aria è immobile e la casa, presumo, vuota. Con le pagine serrate le lettere che, sotto i nostri occhi nella lettura, sviluppano meravigliosi o banali concetti, adesso arrivano a toccarsi, le facciate dispari sulle pari, a contatto strettissimo. Le bave dell’inchiostro si sovrappongono, creando intrecci impensabili e fantastici, sequenze forse casuali, forse ordinate. Nessuno però può vedere questo prodigio, ché ad aprire, anche di fretta, il libro, il mistero svanirebbe. Ed è in questi momenti, quando noi non ci siamo, e dormiamo, siamo assenti, occupati a sopravvivere, a fantasticare, che i libri possono finalmente, sovrani, adoperare le lettere a loro disposizione, e finalmente mischiarle in modo pazzo, dando vita a fulminanti calembour, finali grotteschi, nuove filosofie trascendenti, frasi oscene e irriverenti, massimi sistemi, nonsense, capolavori di prosa erudita e semplici liste della spesa. Finalmente liberi e ribelli, ma in fondo sempre semplici ed uguali a sé stessi, facilmente decodificabili come un paio di scarponi di cuoio, su e giù, per un lungo sentiero, in una continua alternanza di passi e pensieri.
Crediti:
- la frase “Gli anni non sono un dettaglio. Passano.” è dell’amico Gianpaolo.
- le tre traduzioni della Montagna incantata sono messe a confronto in un articolo di Claudio Mussio, www.germanistica.net
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Federico Balzan